L'autoBiografia come indicazione terapeutica
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L'autoBiografia come indicazione terapeutica
20 settembre 2003
Mai visti tanti zeri in trentasei anni; amavo il 1999 sin dal 1991, il 2000 poi mi sembrò irreale. Pensai che saremmo morti tutti e invece il primo gennaio 2000 ero ancora vivo.
Parentesi
Questo racconto avrebbe dovuto avere uno svolgimento differente se non fosse che circa quattro ore fa un medico dell’ospedale di Alessandria mi ha diagnosticato l’HIV. Positivo all'HIV.
Ho pianto.
A poche ore di distanza dalla notizia non ho ancora capito bene che cosa mi stia accadendo, ma sento d’essere già cambiato.
Triste, perché solo ieri m’immaginavo a sessant’anni a passeggiare per le colline del Monferrato sulla mia bicicletta da corsa. Sereno e un poco più saggio perché “ora” per la prima volta nella mia vita comincio a dare un senso al mio tempo e alle cose: un caffè, una telefonata ad un amico, due passi attorno all’isolato, un buon libro. Mi chiedo se non sto pagando un prezzo troppo alto per aver compreso queste cose solo adesso.
Come è possibile a questo punto essere sintetici?
Provo a mettermi dall’altra parte. Io medico, con quali parole comunico al paziente che da oggi in poi il concetto della morte per lui sarà meno astratto?
Dovrò usare comunque delle parole.
Parole, appunto; e se sono un buon medico avrò imparato che le parole in certi casi devono essere scarne.
Dilungarsi allungherebbe un’ansia cattiva, inutile.
Ma le cattive notizie hanno anche un odore.
Quando le parole arrivano, la notizia spesso è già conosciuta. AIDS o tumore sono solo parole, ma hanno quell’odore.
L’animale che sopravvive in noi nonostante condizionamenti, educazione, cultura, allarga le narici, mostra i denti e trema.
L’esito delle analisi del sangue, che avvengono ogni due mesi, per un sieropositivo è come il giudizio in cassazione, colpevole o innocente, dove la colpevolezza è rappresentata dall'assunzione di farmaci che cancella ogni speranza.
Per la HIV c’è la cassazione della cassazione, e ogni volta, ogni due mesi appunto, l’esito si potrebbe ribaltare, i risultati da positivi essere negativi e allora ti senti come uno yogurt con la scadenza.
Sono anni che non compero yogurt perché la scadenza è sempre troppo breve.
Se dovrò morire per un virus che non posso vedere e toccare vorrei portarmi dietro il profumo dei fiori di bosco e dell’ulivo appena tagliato.
L’ultima cassazione mi ha assolto, il mio sistema immunitario ha reagito in modo sorprendente tanto da non rendere necessaria una terapia farmacologica; questa è la buona notizia, la cattiva è un’infezione epatica cronica che richiede una biopsia al fegato per accertarne l’entità.
Ma come? Ieri il nemico numero uno era l’HIV, e ora mi sento dire che questo, almeno per il momento, non è il problema?
Nell’arco di quattordici mesi ho perso madre e padre di tumore, un fratello di overdose, scoperto di essere sieropositivo, perso casa, lavoro e visto sfumare una relazione.
Una sola di queste cose in passato mi avrebbe piegato le ginocchia, tutte insieme hanno migliorato la mia vita.
Il dolore e la fatica restano totali, da questo punto di vista non ci sono stati sconti, quello che è cambiato è la percezione del peggio.
Quando sopravvivi a tutto questo restano veramente poche le cose che possano farti paura, ogni tentativo di essere felice ha il sapore disperato dell’ultima volta e allora ti butti senza chiederti come ne uscirai, perché mal che vada, il peggio è già accaduto.
Https://www.analkoliker.splinder.com
Mai visti tanti zeri in trentasei anni; amavo il 1999 sin dal 1991, il 2000 poi mi sembrò irreale. Pensai che saremmo morti tutti e invece il primo gennaio 2000 ero ancora vivo.
Parentesi
Questo racconto avrebbe dovuto avere uno svolgimento differente se non fosse che circa quattro ore fa un medico dell’ospedale di Alessandria mi ha diagnosticato l’HIV. Positivo all'HIV.
Ho pianto.
A poche ore di distanza dalla notizia non ho ancora capito bene che cosa mi stia accadendo, ma sento d’essere già cambiato.
Triste, perché solo ieri m’immaginavo a sessant’anni a passeggiare per le colline del Monferrato sulla mia bicicletta da corsa. Sereno e un poco più saggio perché “ora” per la prima volta nella mia vita comincio a dare un senso al mio tempo e alle cose: un caffè, una telefonata ad un amico, due passi attorno all’isolato, un buon libro. Mi chiedo se non sto pagando un prezzo troppo alto per aver compreso queste cose solo adesso.
Come è possibile a questo punto essere sintetici?
Provo a mettermi dall’altra parte. Io medico, con quali parole comunico al paziente che da oggi in poi il concetto della morte per lui sarà meno astratto?
Dovrò usare comunque delle parole.
Parole, appunto; e se sono un buon medico avrò imparato che le parole in certi casi devono essere scarne.
Dilungarsi allungherebbe un’ansia cattiva, inutile.
Ma le cattive notizie hanno anche un odore.
Quando le parole arrivano, la notizia spesso è già conosciuta. AIDS o tumore sono solo parole, ma hanno quell’odore.
L’animale che sopravvive in noi nonostante condizionamenti, educazione, cultura, allarga le narici, mostra i denti e trema.
L’esito delle analisi del sangue, che avvengono ogni due mesi, per un sieropositivo è come il giudizio in cassazione, colpevole o innocente, dove la colpevolezza è rappresentata dall'assunzione di farmaci che cancella ogni speranza.
Per la HIV c’è la cassazione della cassazione, e ogni volta, ogni due mesi appunto, l’esito si potrebbe ribaltare, i risultati da positivi essere negativi e allora ti senti come uno yogurt con la scadenza.
Sono anni che non compero yogurt perché la scadenza è sempre troppo breve.
Se dovrò morire per un virus che non posso vedere e toccare vorrei portarmi dietro il profumo dei fiori di bosco e dell’ulivo appena tagliato.
L’ultima cassazione mi ha assolto, il mio sistema immunitario ha reagito in modo sorprendente tanto da non rendere necessaria una terapia farmacologica; questa è la buona notizia, la cattiva è un’infezione epatica cronica che richiede una biopsia al fegato per accertarne l’entità.
Ma come? Ieri il nemico numero uno era l’HIV, e ora mi sento dire che questo, almeno per il momento, non è il problema?
Nell’arco di quattordici mesi ho perso madre e padre di tumore, un fratello di overdose, scoperto di essere sieropositivo, perso casa, lavoro e visto sfumare una relazione.
Una sola di queste cose in passato mi avrebbe piegato le ginocchia, tutte insieme hanno migliorato la mia vita.
Il dolore e la fatica restano totali, da questo punto di vista non ci sono stati sconti, quello che è cambiato è la percezione del peggio.
Quando sopravvivi a tutto questo restano veramente poche le cose che possano farti paura, ogni tentativo di essere felice ha il sapore disperato dell’ultima volta e allora ti butti senza chiederti come ne uscirai, perché mal che vada, il peggio è già accaduto.
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica
Non rimaner catturati dalle tue riflessioni è veramente impossibile, in parecchie parti è come rivedersi in uno specchio e ritrovarsi.
Mi piacerebbe ritrovare ancora questo ''spazio'' tutto tuo.
Benvenuto Analkoliker!
Meli
Mi piacerebbe ritrovare ancora questo ''spazio'' tutto tuo.
Benvenuto Analkoliker!
Meli
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Il paracadute meccanico
...è la mia Benotto, una vecchia bicicletta da corsa che nei mercatini dell'usato è possibile trovare a poco più di dieci euro.
Con una compagnia così è difficile sentirsi smarriti. Il massimo dello splendore la raggiunge quando le aggancio le borse da viaggio sui portapacchi, una posteriore da sessanta litri e due anteriori da venticinque litri ciascuna, in più uno zaino da settantacinque litri per le emergenze o per gli spostamenti in cui la bicicletta sarebbe d'ingombro: una gita in montagna o un appuntamento d'amore. Un peso che varia da centoventi chili a centoquaranta chili di meccanica obsoleta, passeggero compreso. Passione, amore e determinazione lanciati in discesa a quaranta chilometri all'ora, in cui una distrazione o una buca non anticipata potrebbero mandarti al creatore. È un po’ come lanciarsi in discesa con una vecchia Moto Guzzi senza il motore.
In curva non si scherza.
Centoventi, trenta, quaranta chili, dopo pochi metri cominciano a vivere di vita propria e se non stai attento ti portano dove vogliono loro: curve larghe e dritti rovinosi. Per fottersi basta poco meno di un attimo.
Paura? Sempre!
La paura e il controllo assoluto del mezzo possono regalarti momenti di adrenalinica ebbrezza che ti avvicina al senso di onnipotenza.
“Cazzo questa cosa la so fare proprio bene!”
E poi vai oltre, sempre un pochino oltre; al culo della corriera, (in scia per evitare l'attrito del vento) il sedere in fondo alla sella, torace ripiegato in avanti parallelo alla strada con l'ombelico appoggiato sulla punta del sellino e il naso quasi appoggiato alla pipetta del manubrio, posizione aerodinamica da virtuoso discesista. Trenta, quaranta, cinquanta, sessanta e ottanta chilometri all'ora, sempre al culo della corriera. Mi allargo per imboccare la curva, una frenata decisa a chiudere verso sinistra, lui tiene la corsia di destra.
Il primo è già volato, due, tre, quattro secondi. Infilo il passo lungo del cambio 53/14.
“Cazzo Stefano non lo fare è una cazzata! Esci!”
Sono vicino al passaruote anteriore della corriera, non resisto alla tentazione di infilargli la mano dentro per farmi scorrere la ruota sui polpastrelli delle dita con il ghigno di chi accarezza la testa ad un bambino, e poi via. Uno, due, tre, quattro secondi e gli sono davanti.
BIIIIIIP!!!!
“ smettila <edit automatico> te è il tuo trattore a diciotto ruote”
Un sorpasso da “Anonima Ciclisti”, la parte insana e goliardica che sopravvive in ogni vero cicloturista che un tempo sognava le competizioni e una carriera da professionista. Credo non sia tanto diverso dal buttarsi col paracadute da un aeroplano, ma dato che ho le vertigini mi toccano i culi delle corriere e quello delle utilitarie variamente accessoriate.
Del mio paracadute meccanico ho voluto conoscere tutto, ogni singola sfera, dal movimento centrale, alla forcella, ai mozzi e persino le rotelle del cambio.
Ad ogni discesa mi sembra di vedere l'ottava sfera del mozzo anteriore, che compone il cuscinetto che regola lo scorrimento della ruota.
Il pensiero, quando affronto una discesa. va a quella rigatura del cuscinetto, a cui due anni prima non avevo potuto porre rimedio. Ogni tanto la sento strillare e le vibrazioni le sento fin sopra le leve dei freni, sulle quali tengo sempre appoggiati gli indici e i pollici.
“Dai, fai la brava, portami fin giù e poi ti mando in pensione. Ti giuro che se mi porti giù senza fare scherzi, ti cambio e ingrasso tutti i cuscinetti”. Promesse da marinaio! E va avanti così da due anni.
In questa condizione svanisce l'emergenza, quando vai giù a settanta, ottanta chilometri orari, l'emergenza svanisce, non c'è tempo per nessuna emergenza, i freni ti servono solo per controllare l'ingresso nelle curve o per controllare un'uscita troppo larga. Quando sei carico come un mulo e viaggi in discesa a sessanta, settanta chilometri all'ora, per giunta senza casco, i finali restano due: arrivare sano e salvo oppure spaccarti le ossa a rischio della vita, alla meglio una poltroncina con le ruote, per il resto della vita.
Personalmente preferisco crepare in discesa che per un cazzo di virus che non ho mai visto, preferisco persino le diciotto ruote di un autocarro sul groppone, senza agonia, senza coscienza e soprattutto senza sopravvivere al dolore.
Anzi, adesso che ci penso non mi dispiacerebbe portarmi il mio virus con tutti i suoi cazzo di CD4 e carica virale al seguito, per vederli spalmati in venti metri di asfalto, nell'urlo di una frenata bruciante.
Estrattodal mio Libro " Via della casa comunale n° 1"
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica
Spesso le persone così profonde hanno alle spalle delle vite disastrate e io mi sono sempre chiesta se questa profondità è un qualcosa di acquisito perché la vita ti mette di fronte a prove dolorosissime, o viceversa è un fatto innato ed è proprio questo “sentire” diverso rispetto agli altri che fatalmente ti porta a percorrere strade non convenzionali che a volte possono diventare precipizi.
Forse non è neanche il tuo caso, Analkoliker, la morte di un familiare è di sicuro un fatto messo là dal destino. Però hai questa profondità di pensieri che colpisce.
Resto in ascolto anch’io
Forse non è neanche il tuo caso, Analkoliker, la morte di un familiare è di sicuro un fatto messo là dal destino. Però hai questa profondità di pensieri che colpisce.
Resto in ascolto anch’io
Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica
Sicuramente questa frase racchiude anni di dolore, ma nell'assurdo di queste nostre storie dolorose racchiude anche l'intensità con cui si può vivere il presente liberi da condizionamento del futuro o paure del domani.....è una magia che solo occhi e cuore già sepolti possono percepire.analkoliker ha scritto:20 settembre 2003
Quando sopravvivi a tutto questo restano veramente poche le cose che possano farti paura, ogni tentativo di essere felice ha il sapore disperato dell’ultima volta e allora ti butti senza chiederti come ne uscirai, perché mal che vada, il peggio è già accaduto.
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Sapessi quante volte in 30 anni sono morto e poi rinato, morto e poi rinato, ogni volta che rinasco è sempre più bello perchè aggiungo un altro tassello di felicità che non pensavo ci fosse ancora per me.
Bello leggerti grazie.
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica
Ottobre 2005Caro diario 2
I miei CD4 si sono alzati e la carica virale si è abbassata, questo lo definirei un sollievo.
Al medico infettivologo ho fatto l'unica domanda che avrei dovuto tenere per me, e cioè quale prospettiva e qualità della vita mi attendono; la risposta è arrivata come una spietata condanna “ Una decina di anni, signor Bruccoleri, e non tanto per l'HIV, quanto per la combinazione con l'epatite C di cui lei è affetto e di cui noi medici non sappiamo ancora molto. Negli ultimi anni le terapie farmacologiche per l'HIV invece sono divenute di facile assunzione e con una percentuale di sopravvivenza non immaginabili solo fino a dieci anni fa.
Siamo lontani dalla guarigione e dal vaccino, ma la qualità della vita dei malati sieropositivi è nettamente migliorata. Diciamo che conducono una vita normale, con la sola differenza che devono assumere la terapia farmacologica per tutta la vita e fare controlli regolari cercando ovviamente di non strapazzare l'organismo con sostanze stupefacenti e soprattutto alcol”
Cazzo, dieci anni possono essere tanti o un alito di tempo.
Dieci anni! Dieci anni! No, sto sognando! Non può essere capitato proprio a me. No! No! No!
Adesso mi sveglio, strizzo gli occhi come facevo da bambino per risvegliarmi dai brutti sogni e mi ritrovo nel letto, magari spaventato a morte ma sano. Andrebbe bene anche risvegliarmi in un letto d'ospedale uscito dal coma dopo un incidente stradale.
Nulla. Sono già sveglio.
<edit automatico>.
Traccio una linea come quando si fanno i conti della serva, foglio di carta e penna in mano, gli spiccioli sulla tavola per capire quello che posso ancora fare. In attivo metto il fatto di non dover cominciare la terapia.
Il passivo già lo conosco.
Birra... birra, adesso ci vuole una birra.
Birra fino a raggiungere l'assenza della coscienza.
Viaggio nell'incredulità, quello che mi sta accadendo mi allontana dalla realtà conosciuta fino ad oggi.
È la follia della percezione.
Il concetto della morte, della fine ultima e inappellabile non si era mai presentata fisicamente così netta, limpida, assoluta. No non ci posso credere, Cristo Madonna!
Altre volte penso di essere assolutamente sano e che quello che mi sta accadendo sia frutto del declino delle mie facoltà, dunque malato in questa condizione irreale e immune dall'AIDS ma folle nel mondo reale. Non so cosa sia peggio.
Sono momenti in cui cerco di ancorarmi almeno a una delle due realtà, quantomeno per semplificare. Esplodo, birra, birra, eroina, birra, <edit automatico>, birra e assenza.
I miei CD4 si sono alzati e la carica virale si è abbassata, questo lo definirei un sollievo.
Al medico infettivologo ho fatto l'unica domanda che avrei dovuto tenere per me, e cioè quale prospettiva e qualità della vita mi attendono; la risposta è arrivata come una spietata condanna “ Una decina di anni, signor Bruccoleri, e non tanto per l'HIV, quanto per la combinazione con l'epatite C di cui lei è affetto e di cui noi medici non sappiamo ancora molto. Negli ultimi anni le terapie farmacologiche per l'HIV invece sono divenute di facile assunzione e con una percentuale di sopravvivenza non immaginabili solo fino a dieci anni fa.
Siamo lontani dalla guarigione e dal vaccino, ma la qualità della vita dei malati sieropositivi è nettamente migliorata. Diciamo che conducono una vita normale, con la sola differenza che devono assumere la terapia farmacologica per tutta la vita e fare controlli regolari cercando ovviamente di non strapazzare l'organismo con sostanze stupefacenti e soprattutto alcol”
Cazzo, dieci anni possono essere tanti o un alito di tempo.
Dieci anni! Dieci anni! No, sto sognando! Non può essere capitato proprio a me. No! No! No!
Adesso mi sveglio, strizzo gli occhi come facevo da bambino per risvegliarmi dai brutti sogni e mi ritrovo nel letto, magari spaventato a morte ma sano. Andrebbe bene anche risvegliarmi in un letto d'ospedale uscito dal coma dopo un incidente stradale.
Nulla. Sono già sveglio.
<edit automatico>.
Traccio una linea come quando si fanno i conti della serva, foglio di carta e penna in mano, gli spiccioli sulla tavola per capire quello che posso ancora fare. In attivo metto il fatto di non dover cominciare la terapia.
Il passivo già lo conosco.
Birra... birra, adesso ci vuole una birra.
Birra fino a raggiungere l'assenza della coscienza.
Viaggio nell'incredulità, quello che mi sta accadendo mi allontana dalla realtà conosciuta fino ad oggi.
È la follia della percezione.
Il concetto della morte, della fine ultima e inappellabile non si era mai presentata fisicamente così netta, limpida, assoluta. No non ci posso credere, Cristo Madonna!
Altre volte penso di essere assolutamente sano e che quello che mi sta accadendo sia frutto del declino delle mie facoltà, dunque malato in questa condizione irreale e immune dall'AIDS ma folle nel mondo reale. Non so cosa sia peggio.
Sono momenti in cui cerco di ancorarmi almeno a una delle due realtà, quantomeno per semplificare. Esplodo, birra, birra, eroina, birra, <edit automatico>, birra e assenza.
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica
I pezzi di racconto che sto pubblicando sono miei. H piacere di riproporli in questo spazio.
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Buona lettura
Bruccoleri Stefano
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica
Graziella Ti Amo
Una chiave da otto, una da nove, una da dieci, un'altra ancora da undici, molto più raramente la chiave da dodici, molto più spesso quella da tredici per il bulloni delle ruote e per la sella. Una pinza un cacciavite piatto. Ecco realizzata la mia prima cicloOfficina all'età di tredici anni, tredici come la chiave della sella e delle ruote della Graziella.
Per quanto mi sforzi di ricordare, non ricordo la mia prima bicicletta, e neppure la prima che rubai.
Non ho mai portato la bicicletta da un ciclista e quando lo facevo pretendevo di restare li a guardare, poi facevo domande, un sacco di domande e ad un certo punto Franco il ciclista si decise a spiegarmi come si riparavano le biciclette, i trucchi e le regole assolute che regolano gli equilibri di una bicicletta. Gli costava meno spiegarmi come riparare una bicicletta che avermi fra i piedi tutto il tempo.
Ancora oggi a distanza di trent'anni non ho ancora compreso le ragioni di quella passione, credo che abbia a che fare con il desiderio di autonomia, di non dipendere dai grandi, e questo mi basta.
Quello che non ho definitivamente messo a fuoco, che fatico ancora a descrivere, ha a che fare con quel sottile piacere di afferrare una chiave da otto, e serrare un dato: vestire un dado con la chiave giusta, dare un paio di giri, arrivare a fine corsa e poi serrare con un ultimo colpo il dado al bullone; poco più di un millimetro di corsa. Svestire il dado dalla chiave e godersi quella sensazione rassicurante di aver fatto quella cosa bene, e di averla fatta io.
Il passaggio dal dado da otto a quello da diciassette, passando da quello da quindici è immediato, ogni dato ha un compito ben preciso e spesso compie sempre la stessa funzione per il resto della sua carriera, ogni dado e bullone hanno la propria incrollabile vocazione.
Il dado che serra il cavo dei freni, quello piatto per la registrazione dei coni delle ruote al cui interno sono alloggiate le sfere che garantiscono la corretta scorrevolezza delle ruote.
La bicicletta è come una sorta di alveare, ogni ape ha la sua funzione, ad ogni parte meccanica viene assegnato un compito, non ci sono vacanze, ferie, contributi, non si va in pensione. Le biciclette, non si innamorano, non soffrono. Fanno innamorare e quando lo fanno lo fanno veramente bene. Possono avere un nome, uno o più colori e possono avere diversi amanti.
Non soffrono se le abbandoni, invecchiano senza lamentarsi, e poi sanno risorgere meglio di un Cristo.
Non hanno padroni. Le rubano di continuo!
Ora capisco un pochino meglio.
Le biciclette vivono senza morire, seducono senza soffrire, regalano paesaggi, non ti rinfacciano nulla e nulla chiedono. Sono specchi in cui riflettersi. Un dado dei freni serrato male ti porta oltre il punto in cui avresti voluto fermarti, una gomma sgonfia ti porta in quel punto affaticato al punto da non goderti la meta.
E' una questione di dadi e atmosfere giuste.
Una chiave da otto, una da nove, una da dieci, un'altra ancora da undici, molto più raramente la chiave da dodici, molto più spesso quella da tredici per il bulloni delle ruote e per la sella. Una pinza un cacciavite piatto. Ecco realizzata la mia prima cicloOfficina all'età di tredici anni, tredici come la chiave della sella e delle ruote della Graziella.
Per quanto mi sforzi di ricordare, non ricordo la mia prima bicicletta, e neppure la prima che rubai.
Non ho mai portato la bicicletta da un ciclista e quando lo facevo pretendevo di restare li a guardare, poi facevo domande, un sacco di domande e ad un certo punto Franco il ciclista si decise a spiegarmi come si riparavano le biciclette, i trucchi e le regole assolute che regolano gli equilibri di una bicicletta. Gli costava meno spiegarmi come riparare una bicicletta che avermi fra i piedi tutto il tempo.
Ancora oggi a distanza di trent'anni non ho ancora compreso le ragioni di quella passione, credo che abbia a che fare con il desiderio di autonomia, di non dipendere dai grandi, e questo mi basta.
Quello che non ho definitivamente messo a fuoco, che fatico ancora a descrivere, ha a che fare con quel sottile piacere di afferrare una chiave da otto, e serrare un dato: vestire un dado con la chiave giusta, dare un paio di giri, arrivare a fine corsa e poi serrare con un ultimo colpo il dado al bullone; poco più di un millimetro di corsa. Svestire il dado dalla chiave e godersi quella sensazione rassicurante di aver fatto quella cosa bene, e di averla fatta io.
Il passaggio dal dado da otto a quello da diciassette, passando da quello da quindici è immediato, ogni dato ha un compito ben preciso e spesso compie sempre la stessa funzione per il resto della sua carriera, ogni dado e bullone hanno la propria incrollabile vocazione.
Il dado che serra il cavo dei freni, quello piatto per la registrazione dei coni delle ruote al cui interno sono alloggiate le sfere che garantiscono la corretta scorrevolezza delle ruote.
La bicicletta è come una sorta di alveare, ogni ape ha la sua funzione, ad ogni parte meccanica viene assegnato un compito, non ci sono vacanze, ferie, contributi, non si va in pensione. Le biciclette, non si innamorano, non soffrono. Fanno innamorare e quando lo fanno lo fanno veramente bene. Possono avere un nome, uno o più colori e possono avere diversi amanti.
Non soffrono se le abbandoni, invecchiano senza lamentarsi, e poi sanno risorgere meglio di un Cristo.
Non hanno padroni. Le rubano di continuo!
Ora capisco un pochino meglio.
Le biciclette vivono senza morire, seducono senza soffrire, regalano paesaggi, non ti rinfacciano nulla e nulla chiedono. Sono specchi in cui riflettersi. Un dado dei freni serrato male ti porta oltre il punto in cui avresti voluto fermarti, una gomma sgonfia ti porta in quel punto affaticato al punto da non goderti la meta.
E' una questione di dadi e atmosfere giuste.
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica
Ciao analkoliker, ieri sera ti avevo fatto una proposta in pvt, potresti gentilmente dare riscontro al mio messaggio? Grazie.