[II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
admeto
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da admeto » domenica 17 maggio 2015, 18:08

... W l'Italia...



Beretta
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da Beretta » domenica 24 maggio 2015, 16:31

ma un crowdfunding?



Dora
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da Dora » lunedì 2 maggio 2016, 21:01

Riprendo un post scritto nel luglio di due anni fa per ricordare a tutti di che cosa trattiamo in questo thread.
Dora ha scritto:[...] una review scritta da Iart Shytaj e Andrea Savarino per Retrovirology alla fine dell'anno scorso: A cure for AIDS: a matter of timing?
È un articolo che tratta delle diverse strategie di cura dell’infezione da HIV che sono state perseguite in questi anni e dei pochi casi di successo che le hanno ispirate, dal quale emerge in modo molto chiaro il senso della sperimentazione su auranofin (e BSO – il protocollo del trial clinico in partenza ora non contempla questo secondo farmaco, ma in questo modo il razionale rimane incompleto e si dovranno fare altri trial per vedere se l’aggiunta di butionina sulfossimina permetterà di replicare negli uomini i buoni risultati avuti con i macachi).

Tutto (o molto) sta nei tempi, ci dicono Shytaj e Savarino – tutto sta nel ricreare artificialmente in persone che hanno un’infezione da HIV cronica quella finestra di magnifiche opportunità che è la fase acuta, la cosiddetta infezione primaria.

Il trattamento durante la fase primaria dell’infezione sembra comportare delle risposte immuni anti-HIV ampie e forti, ridotta attivazione immunitaria, rapida ripresa dell’immunità della mucosa gastrointestinale e limitata evoluzione del virus. Inoltre, si sta osservando proprio in questi ultimi anni che l’inizio precoce della ART può limitare il formarsi di reservoir di virus latente: i CD4 memoria centrale (Tcm) sono una componente chiave del reservoir di HIV e, a differenza di altri CD4 memoria che muoiono in fretta, hanno una vita molto lunga. Bene, si è visto che l’inizio molto precoce della ART limita la creazione di reservoir proprio in cellule della memoria centrale.

Inoltre, una serie ben consolidata di evidenze dimostra che, quando le persone che hanno iniziato la ART in fase cronica sospendono i farmaci, presentano, in generale, un rapido risorgere della viremia fino ai livelli che erano stati raggiunti prima del trattamento.
Invece, gli studi sui post treatment controllers, cioè persone che – come ad esempio i pazienti della coorte VISCONTI – hanno iniziato la ART molto presto, appena dopo aver contratto l’infezione o nei primissimi mesi successivi, e poi hanno sospeso le terapie ci mostrano persone che riescono a controllare da sole la replicazione del virus per periodi anche assai lunghi.
E lo studio dei reservoir nei post treatment controllers mostra che i loro reservoir hanno dimensioni molto limitate e sono soprattutto localizzati in un sottogruppo di CD4 – quelli della memoria transitoria (Ttm) – che hanno una vita assai più breve rispetto ai Tcm.

La figura che segue descrive il contributo dei diversi tipi di CD4 al reservoir dell’HIV in base alla diverse fasi di infezione ed è tratta da una review che Caroline Passaes e Asier Sáez-Cirión hanno pubblicato su Virology pochi mesi fa, dedicata a HIV cure research: Advances and prospects.

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Come ricordano Passaes e Sáez-Cirión, non è che tutto sia chiaro nella situazione dei post treatment controllers. Ad esempio, non sappiamo esattamente quali siano i meccanismi che presiedono al controllo delle viremie, né come sia possibile aumentare la probabilità che una persona con HIV diventi un post treatment controller. L’ipotesi che sta raccogliendo maggiori conferme empiriche, però, è che il momento di inizio e la durata della ART svolgano un ruolo cruciale nel permettere di mantenere un controllo duraturo sulla replicazione virale una volta che la ART viene sospesa.
Altri fattori che possono avere influenza sono la viremia di partenza e lo stato di attivazione immunitaria. Invece, se il tipo di terapia scelta durante la fase primaria abbia un qualche ruolo non è ancora stato studiato.
In ogni caso, sottolineano Passaes e Sáez-Cirión, l’assenza di marker che predicano il successo dopo l’interruzione della terapia sconsiglia in ogni modo che l’interruzione della ART avvenga al di fuori di un protocollo strutturato (niente “sospensioni fai da te”, come abbiamo ricordato in questi giorni nel thread ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZIONI?).

La figura qui sotto, tratta dalla review di Shytaj e Savarino, descrive il controllo spontaneo della viremia in persone che hanno iniziato la ART durante l’infezione primaria: i pallini verdi sono le cellule produttivamente infette, quelli azzurri le cellule latentemente infette, la linea rossa continua indica la viremia e quella tratteggiata indica l’andamento della viremia nei post treatment controllers:

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Nel loro articolo, Shytaj e Savarino ricordano come tutti gli studi sulla cura/eradicazione dell’HIV in persone con infezione cronica fatti finora, che si tratti di terapie geniche o di farmaci contro la latenza, hanno comportato rischi molto più consistenti rispetto alle strategie adottate in fase acuta. Ne segue che

  • la possibilità di indurre uno scenario simile a quello della fase acuta in uno stadio più avanzato della malattia può rappresentare un’opzione unica di aprire una nuova finestra di opportunità per interventi terapeutici da adottarsi durante la fase acuta.


Qui entra in gioco l’auranofin, un farmaco in uso da tempo contro l'artrite reumatoide che ha dimostrato di poter agire da agente anti-reservoir in vivo quando è stato somministrato a macachi cronicamente infettati da SIVmac251.
Un aspetto interessante di questo farmaco è che ha la capacità di indurre a differenziarsi (e dunque a morire) soprattutto quei CD4 della memoria centrale e transitoria che, come abbiamo visto, costituiscono il grosso del reservoir latente di HIV:

Immagine

Ma, oltre a causare un effetto anti-reservoir, l’avere aggiunto auranofin a un regime di ART che aveva portato alla completa soppressione della viremia, ha modificato radicalmente la dinamica della viremia nei macachi: quando tutti i trattamenti sono stati sospesi, infatti, i macachi che avevano ricevuto ART + auranofin hanno avuto un rebound della viremia con un picco simile a quello che si verifica durante la fase acuta, ma con un set point fino a 1 log più basso rispetto a quello raggiunto dalle scimmie prima della terapia, e con manifestazioni tipiche della fase di infezione primaria quali un aumento delle risposte immuni specifiche.
Questo ha permesso di trattare nuovamente i macachi con un breve ciclo di ART e così di indurre un ulteriore abbassamento del set point della viremia quando la terapia è stata nuovamente sospesa in due macachi. Il numero delle scimmie è basso, ma durante un lungo follow up si è visto che riuscivano a mantenere il controllo della viremia a dei livelli bassissimi.

Anche se il meccanismo sottostante alla drastica modificazione del rebound virale indotto da auranofin non è del tutto chiaro, è però verosimile che auranofin abbia indotto il controllo sulle viremie proprio riducendo le dimensioni del reservoir.
Di qui l’idea che sia possibile indurre il “ritorno ad una fase che abbia le caratteristiche della fase acuta” in persone che sono in fase cronica e poi sfruttare quella situazione per instaurare un controllo senza farmaci della replicazione del virus.

Per capire la sperimentazione clinica in partenza negli Stati Uniti potremmo fermarci qui [questa sperimentazione, che doveva svolgersi presso il VGTI Florida, non è mai partita a causa del fallimento del VGTI Florida medesimo]. Ma la ricerca di Savarino prevede l’intervento di un secondo farmaco – la BSO, una sostanza che inibisce la produzione di glutatione ed è usata come chemioterapico per indurre l'apoptosi di alcune cellule per via dei radicali liberi - allo scopo di migliorare le risposte immuni specifiche e così aiutare il controllo spontaneo della viremia. Savarino ha lavorato su scimmie, quindi le risposte immuni che ha stimolato con la BSO sono state quelle contro la proteina Gag dell’SIVmac251.

C’è ormai un generale consenso nella comunità scientifica sull’idea che risvegliare il virus latente nei reservoir non sia sufficiente per arrivare alla distruzione delle cellule riattivate, ma sia necessario stimolare in qualche modo le reazioni immuni dei CD8. La BSO è la via proposta da Savarino.

Diversi studi hanno dimostrato che forti risposte immuni anti-Gag si associano con viremie basse e CD4 alti – e questo non solo nei macachi, ma anche negli uomini. Inoltre, sta iniziando a ricevere delle conferme l’idea che i CD8 possano ridurre il reservoir virale riconoscendo gli antigeni Gag prodotti dai CD4 quiescenti latentemente infetti (vedere verso la fine di questo post un accenno alla ricerca di Una O'Doherty).
Rinforzando le risposte immuni anti-Gag con la BSO aggiunta al trattamento con ART e auranofin, si è visto che le scimmie arrivavano a uno stato simile a quello di una cura funzionale.
Ma per sapere se questo sarà possibile anche negli esseri umani dovremo aspettare un’altra sperimentazione clinica.

Un approfondimento nel post UN LUNGHISSIMO FOLLOW UP PERMETTE DI RAFFORZARE IL RAZIONALE DI UNA CURA FUNZIONALE VIA ART / AURANOFIN / BUTIONINA SULFOSSIMINA del maggio dell'anno scorso. Qui, solo una citazione:
Dora ha scritto:[...] In un precedente articolo su Cell Death and Disease (una rivista del gruppo Nature), Savarino e colleghi hanno descritto gli effetti epigenetici di auranofin, la sua capacità di silenziare geni che codificano per delle proteine quali CD27 e CD28, che sono antigeni di superficie dei linfociti T che favoriscono la sopravvivenza delle cellule e si esprimono in particolare nei linfociti T della memoria centrale e della memoria transitoria (Tcm e Ttm), che costituiscono il maggiore reservoir di HIV latente.
Quanto più i linfociti T sono differenziati (e i linfociti memoria sono l’ultimo stadio del processo di differenziazione), tanto più le loro difese anti-ossidanti diminuiscono e tanto più essi diventano suscettibili alla cascata di segnali chimici innescata dall’auranofin, che li porta a differenziarsi e a morire.
La sottomodulazione del CD28 ottenuta con la somministrazione di auranofin comporta dunque una diminuzione del tempo di vita dei CD4 Tcm e Ttm e si traduce in un progressivo esaurimento del reservoir, senza al tempo stesso toccare i linfociti T naive o le cellule staminali e senza causare danno immunitario in vivo.

A peggiorare la diminuita capacità di difendersi dai processi ossidativi osservata nei CD4 memoria - un vero e proprio “tallone d’Achille” del reservoir - interviene poi la BSO, che inibisce la produzione di glutatione ed è usata come chemioterapico sperimentale per indurre l'apoptosi di alcune cellule per via dei radicali liberi.

L’aggiunta della BSO al trattamento con ART e auranofin comporta anche un miglioramento delle risposte immuni dei CD8 contro la proteina Gag dell’SIV e ci mostra quanto questo approccio sia diverso dallo shock and kill, anche quello nella versione più sofisticata, che prevede l’uso di un vaccino terapeutico o un altro farmaco che stimoli le risposte CTL. Infatti, qui non è necessario risvegliare il virus dalla latenza e forzarlo a trascriversi: si fa direttamente in modo di uccidere le cellule che contengono virus latente. [...]
E ora veniamo all'oggi.



Dora
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da Dora » lunedì 2 maggio 2016, 21:02

IL LATO BUONO DELLO STRESS OSSIDATIVO


I radicali liberi sono molecole che si formano naturalmente nel corpo a seguito dei processi più svariati, che vanno dalle radiazioni all’infiammazione, all’azione di enzimi, e svolgono un ruolo in molti processi cellulari normali. Sono però anche uno dei più importanti meccanismi di danno cellulare perché sono in grado, se presenti in quantità elevate, di compromettere componenti cellulari fondamentali - dal DNA alle proteine, alle membrane cellulari.
Questi processi possono contribuire all’invecchiamento e allo sviluppo di stati patologici, dall’infiammazione, con tutti i problemi ad essa connessi, al cancro.
I radicali liberi più diffusi sono le specie reattive dell’ossigeno (ROS – anione superossido, O2-, perossido d’idrogeno, H2O2, e radicale ossidrilico •OH). Ma ci sono anche le specie reattive derivate dall’azoto (RNS – in particolare l’ossido nitrico, NO, ed il perossinitrito, ONOO-).

Gli antiossidanti, invece, sono sostanze chimiche presenti in alimenti, integratori, farmaci e nel corpo interagiscono con i radicali liberi, neutralizzandoli:

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Negli ultimi decenni si è diffusa una visione quasi esclusivamente negativa e terrorizzante dei radicali liberi:

Immagine

Questa visione, forse anche opportunamente propagandata e stimolata da chi vive dei proventi del ricchissimo mercato in espansione degli integratori, regolato in modo molto meno rigido ed evidence-based rispetto a quello dei farmaci, ha favorito la nascita di una credenza che ha invaso la coscienza collettiva e ora pervade la nostra cultura, già di suo dominata da una fantasia unilaterale ed edulcorata sulla natura per cui tutto ciò che è *naturale* è automaticamente *buono*. Questa credenza si regge su una fallacia logica, secondo la quale *antiossidante* è sempre e comunque sinonimo di *sano*.

La convinzione secondo cui “gli antiossidanti sono buoni e i radicali liberi cattivi” è così radicata in noi che nel dicembre scorso Nature la elencava al secondo posto in uno sconsolato elenco di “miti che non muoiono” nonostante le evidenze scientifiche accumulate contro di loro siano moltissime.

Come ha scritto Jim Watson, il premio Nobel co-scopritore della doppia elica del DNA, in un articolo del 2013 in cui ha sintetizzato le ragioni per cui somministrare antiossidanti alle persone che hanno un cancro rischia di fare loro molto più male che bene perché non soltanto non favorisce il processo di guarigione, ma anzi può stimolare la formazione di metastasi, “anche se conosciamo i ROS come una forza positiva grazie al loro ruolo pro-apoptotico, per troppo tempo li abbiamo temuti per la loro capacità di danneggiare in modo irreversibile delle proteine fondamentali e le molecole degli acidi nucleici”.

Come nel caso del cancro, così in quello dell’infezione da HIV è stata per anni prevalente la visione semplificata secondo cui, dal momento che l’infezione induce stress ossidativo a causa di un eccesso di produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), allora per prevenire o attenuare il danno che a cellule e tessuti deriva dallo stress ossidativo è opportuno assumere antiossidanti in dosi superiori rispetto a quelle normalmente assunte attraverso l’alimentazione.

A complicare le cose, su questa illusione scientifica si è innestato il delirio dei negazionisti, che ancora oggi propagandano la menzogna che per trattare l’infezione (o – come dicono loro - lo “sbilanciamento del sistema immunitario” derivante da uno scorretto stile di vita) sia sufficiente integrare la dieta con antiossidanti (abbiamo anche il prode Mastrangelo a ribadirlo in Italia proprio in questi giorni mediante citazioni da un ragguardevole elenco di predatory journals).

Questa visione semplicistica è stata però messa in crisi da due grandi eventi:

  • 1. diversi trial clinici, che hanno dimostrato come l’integrazione della dieta con antiossidanti non modifichi il decorso dell’infezione e possa perfino peggiorarlo (vedere ad esempio qui, qui, qui e ancora di recente qui);

    2. la produzione di farmaci antiretrovirali sempre più efficaci nel sopprimere la replicazione del virus e quindi contrastare lo stress ossidativo da esso causato.


In questo filone di smascheramento di un mito si inserisce una review pubblicata oggi sul Journal of Clinical Investigation da Andrea Savarino con Iart Shytaj e collaboratori al Technion di Haifa e all’Harrington Discovery Institute, University Hospitals Case Medical Center di Cleveland: Dual targeting of the thioredoxin and glutathione systems in cancer and HIV.

Per chi ha seguito il lavoro di Savarino negli ultimi anni, questa review è solo una sistematizzazione delle ipotesi espresse in diversi articoli e messe alla prova nelle sperimentazioni sui macachi (per una sintesi del razionale, rimando a questo post).

Vediamo dunque in breve e senza entrare negli aspetti più tecnici di che cosa parla quest’ultimo articolo, trascurando il fatto che la metà è dedicata al contributo dello stress ossidativo nella cura del cancro.

Già l’esordio dell’abstract è molto chiaro:

  • Anche se l’uso di antiossidanti per il trattamento del cancro e dell’HIV/AIDS è stato proposto per decenni, nuove conoscenze apportate dalla ricerca redox hanno suggerito uno scenario molto diverso. Questi nuovi dati dimostrano che i principali sistemi cellulari antiossidanti, il sistema della tioredoxina (Trx) e quello del glutatione (GHS), in realtà promuovono la crescita del cancro e dell’infezione da HIV, sopprimendo un’efficace risposta immune.


I due sistemi della tioredoxina e del glutatione, in effetti, rappresentano la maggiore difesa dell’organismo contro i ROS e gli RNS e agiscono in alcuni casi sovrapponendosi, ma in altri svolgendo funzioni differenti. Tuttavia, sono state ormai raccolte innumerevoli prove del fatto che questi due sistemi svolgano un ruolo omeostatico nei processi cellulari, compresi la sintesi del DNA, la maturazione delle proteine e la segnalazione cellulare. Quindi quando questi sistemi non funzionano come devono possono contribuire a molti stati patologici, che vanno dal cancro alle infezioni, a problemi infiammatori. Ne segue che attaccarli – e attaccarli insieme – può essere una via per trattare diversi tipi di cancro e diverse infezioni.

In particolare, i ROS svolgono ruoli contrastanti nei confronti dei linfociti: mentre sono necessari per attivarli e per permettere loro di montare un’efficace risposta immune antivirale e antitumorale, i ROS promuovono anche l’invecchiamento dei linfociti e la loro morte.
Da parte loro, Trs e GHS contribuiscono a controbilanciare le risposte che promuovono la proliferazione e la sopravvivenza dei linfociti.
Via via che i linfociti maturano e si differenziano, le difese antiossidanti gradualmente diminuiscono: i linfociti T della memoria, che costituiscono l’ultimo stadio del processo di differenziazione e il maggior reservoir latente di HIV, sono quelli che contengono i livelli più bassi di glutatione e sono anche quelli più vulnerabili all’inibizione della tioredoxina.

Come ha detto già diverse volte nei suoi lavori, Savarino ritiene che questa suscettibilità allo stress ossidativo costituisca un tallone d’Achille dei linfociti T memoria, che può essere sfruttato per arrivare a una cura dell’HIV/AIDS.

Poiché gli studi degli anni ’80 e ’90 avevano mostrato che i livelli intracellulari di glutatione erano ridotti in modo significativo nelle persone con HIV e che questo si associava alla diminuzione dei livelli di cisteina nel sangue, furono fatti diversi trial clinici per cercare di stimolare le difese antiossidanti e furono sperimentati diversi composti, compresi l’N-acetilcisteina (un precursore del glutatione), le vitamine A, C ed E, lo zinco, il selenio e svariati carotenoidi. Analoghe sperimentazioni furono fatte sul cancro, e per entrambe le patologie i risultati furono ugualmente deludenti, poiché non mostrarono alcun effetto sulla progressione delle malattie (nel caso dell’HIV, misurata da viremie e CD4).

Il successo della ART da metà anni ’90 portò a un declino dell’interesse per gli approcci terapeutici alternativi o complementari che prevedessero l’uso di antiossidanti.
Oggi, poi, si assiste addirittura a un ribaltamento di prospettiva, poiché la sempre più dettagliata conoscenza del problema della persistenza virale ha portato a una rivalutazione del ruolo dello stress ossidativo (e nitrosativo). Si è infatti compreso che mentre aumenti dello stress ossidativo favoriscono la replicazione virale attiva, le difese antiossidanti favoriscono lo sviluppo e il mantenimento della latenza (cfr. qui, qui e qui).

Gli stimoli infiammatori aumentano l’attività dei fattori di trascrizione (NF-kB e NFAT) che servono per la trascrizione dei geni del virus. Quindi mentre gli antiossidanti possono silenziare l’attività di trascrizione, le sostanze ossidanti possono riattivare il reservoir (cfr. qui, qui e qui).

Di qui il razionale della sperimentazione di Savarino sui macachi: l’inibizione di entrambi i sistemi antiossidanti - ottenuta usando insieme auranofin e BSO - che ha permesso

  • 1. di causare una riduzione del reservoir virale come diretta conseguenza dell’azione a favore di apoptosi e differenziazione da parte dell’auranofin sui linfociti T memoria;
    2. di distruggere la popolazione dei linfociti T attivati, che sono il primo bersaglio del virus e che quando sono a livelli alti si associano a una prognosi meno favorevole;
    3. di stimolare l’immunità contro sequenze conservate della proteina virale Gag.


Il modello che ho ricordato in modo sintetico può essere visto con maggiori dettagli nelle due figure seguenti:

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Ho trovato questa review molto illuminante, quindi ho pensato di rivolgere ad Andrea Savarino qualche domanda.


  • • Un mito duro a morire quello degli effetti soltanto negativi dello stress ossidativo. Dai tanti studi usciti in questi anni e presi in considerazione dalla vostra review, così come dai vostri stessi studi sui macachi, sembra invece che sia urgente rivalutare l’altro lato della medaglia. Qual è il messaggio principale del vostro articolo?

    Uno stress ossidativo indotto nella fase cronica di malattia da farmaci pro-ossidanti come alcuni chemioterapici, auranofin o butionina sulfossimina (BSO), potrebbe essere correlato all’instaurarsi di efficaci risposte immunitarie dirette contro le cellule “malate”.

    • Che cosa rende cura del cancro e cura dell’infezione da HIV così simili, dal punto di vista dello stress ossidativo?

    Le cellule latentemente infettate da HIV vivono e proliferano dentro l’organismo, e questo costituisce un’importante somiglianza con il cancro, come sottolineato anche da altri. Dal punto di vista dello stress ossidativo, poi, mentre è vero che lo stress ossidativo favorisce l’infezione delle cellule da parte di HIV o la loro trasformazione neoplastica, la sopravvivenza di queste cellule “malate” è favorita da un ambiente antiossidante, sia in termini di sopravvivenza della cellula in sé, sia come potenzialità di essere suscettibile alla risposta immunitaria cellulo-mediata, come ho spiegato nella risposta alla domanda precedente. Causare quindi uno stress ossidativo intelligentemente mirato durante la fase cronica delle due malattie potrebbe portare a nuove strategie di cura.

    • Perché l’avvento della ART costituisce un discrimine nella storia dell’infezione da HIV anche dal punto di vista degli studi sull’uso di antiossidanti?

    Perché all’inizio, in assenza di ART, si era riscontrato un calo delle difese antiossidanti, che è abbastanza comune quando vi è una replicazione virale massiva, la quale, a sua volta, richiede uno stress ossidativo. A differenza degli antiossidanti, che hanno dato scarsissimi risultati, o risultati nulli, in termini di riduzione della carica virale in pazienti non trattati, la ART di nuova generazione ha portato un abbattimento notevole della carica virale, contrastando così gli effetti del virus come agente pro-ossidante.

    • Perché usare insieme due molecole che inducono stress ossidativo, una – auranofin – che inbisce il sistema della tioredoxina, e l’altra – butionina sulfossimina – che inibisce la sintesi del glutatione?

    I due sistemi devono essere inibiti simultaneamente per indurre effetti significativi, poiché l’inibizione di solo uno di essi è in parte contrastata dalla sovraregolazione compensatoria dell’altro sistema.

    • Al di fuori di un trial clinico sulla cura, le persone con infezione da HIV controllata dalla terapia antiretrovirale e che insieme assumono integratori antiossidanti con l’idea di controbilanciare lo stress ossidativo presumibilmente indotto dalla ART fanno bene o male? Rischiano qualcosa? È solo questione di dosi? Farebbero meglio ad affidarsi soltanto all’assunzione di antiossidanti attraverso frutta e verdura? Se l’assorbimento dei micronutrienti risulta danneggiato dagli effetti dell’infezione a livello gastrointestinale, allora integrare i micronutrienti dall’esterno può essere una via sensata?

    Suggerirei di porre questa domanda alla collega, Dr.ssa Giulia Marchetti, che è un’esperta di barriere mucosali in soggetti HIV+ ed ha appena pubblicato una review sull’argomento. (*)

    • La vostra review si conclude con una notizia che chi ha seguito le vicende della ricerca su auranofin e BSO stava attendendo da tempo: in Brasile, sotto la supervisione di Ricardo Diaz, è in corso uno studio clinico di fase II, che include un braccio in cui persone con HIV vengono trattate con ART e auranofin (ma senza BSO) per studiare gli effetti di auranofin sul reservoir virale. In che cosa consiste esattamente questo braccio della sperimentazione?

    Saranno previsti, tra gli altri, due bracci, uno con mega-ART ed uno con mega-ART ed auranofin (600 mg/die per sei mesi). Si valuterà, oltre ai normali parametri clinici, anche l’andamento del DNA virale e si monitoreranno eventuali effetti collaterali. Come ho sopra accennato, in assenza della doppia inibizione, non vi è da aspettarsi un effetto eclatante, ma questi dati saranno utilissimi per il disegno del futuro trial clinico con auranofin e BSO.

    • Grazie per averci aiutato a chiarire il senso del vostro lavoro. Ora un’ultima curiosità personale: come sta 4890?

    4890 è in vita ed in ottima salute, a tre anni e nove mesi di sospensione dalla terapia. Purtroppo, al momento, non ho risorse economiche per fare ulteriori indagini biomolecolari, ma conto di dare un aggiornamento, come sempre, attraverso una pubblicazione scientifica non appena avrò le risorse economiche per procedere. Mi dispiace di non potere dire di più, ma questa ricerca non è più sostenuta dall’Istituto Superiore di Sanità.



(*) Cfr. C. Tincati, D.C. Douek, G. Marchetti, Gut barrier structure, mucosal immunity and intestinal microbiota in the pathogenesis and treatment of HIVinfection, AIDS Research and Therapy 2016.



alfaa
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da alfaa » martedì 3 maggio 2016, 23:37

Dora quindi il trial di savarino sta continuando? Avevo capito fosse stato interrotto in attesa di finanziamenti, invece qui leggo che c'è una fase 2 in brasile



Dora
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da Dora » mercoledì 4 maggio 2016, 6:02

alfaa ha scritto:Dora quindi il trial di savarino sta continuando? Avevo capito fosse stato interrotto in attesa di finanziamenti, invece qui leggo che c'è una fase 2 in brasile
Ti ringrazio per avermi offerto l'opportunità di ricapitolare a che punto siamo con le sperimentazioni.

1. In Italia non se ne è fatto niente, perché l'Istituto Superiore di Sanità, dopo un balletto indecoroso, ha deciso di non finanziare il trial clinico. Inoltre, come Savarino ci ha ricordato, tutta la ricerca su auranofin e BSO come via di cura dell'infezione da HIV non è più sostenuta dall'ISS.
Che cosa l'ISS sia interessato a sostenere, temo avremo modo di scoprirlo presto.

2. Doveva partire un trial clinico a Miami, presso l'importante Vaccine and Gene Therapy Institute Florida. Tutto era pronto, ma il VGTI ha chiuso per debiti, quindi la sperimentazione è stata ritirata prima ancora di iniziare ad arruolare i pazienti.
Vediamo in breve in che cosa sarebbe dovuta consistere:
  •  
    Uno studio “interventional”, in aperto, di fase 1/2, su un singolo gruppo di presumibilmente 30 persone con HIV stabilmente in terapia soppressiva (<50 copie/ml per almeno 3 anni), con alti CD4 (almeno 500 cellule/µl in due prelievi successivi nei 6 mesi prima dell’inizio del trial) e ottima situazione clinica generale, che avrà lo scopo primario di valutare sicurezza e tollerabilità della somministrazione di auranofin (Ridaura®) in compresse, in dosi successive da 3 a 6 mg al giorno per 12 settimane.
    L’obiettivo secondario sarà la valutazione dei cambiamenti del reservoir latente durante le 12 settimane di somministrazione di auranofin e nelle 8 settimane successive. Le dimensioni del reservoir saranno misurate valutando la frequenza di CD4 contenenti HIV DNA totale e integrato e la frequenza di CD4 che contengono HIV RNA capace di replicazione. Oltre ad analizzare i CD4 circolanti nel sangue, verranno fatte delle biopsie per studiare i CD4 presenti nel tessuto intestinale.
    Lo studio sarà condotto in due fasi: in una prima fase le dosi di auranofin saranno aumentate in sequenza, così da poter valutare l’effetto di due dosi del farmaco; in una fase successiva, a 20 pazienti il dosaggio sarà aumentato fino ad arrivare alla massima dose tollerata (MDT).
     
3. Una sperimentazione clinica sul solo auranofin è in corso da qualche mese in Brasile, ma non risulta iscritta in ClinicalTrials.gov, quindi non ne conosciamo il protocollo nei dettagli. Quello che sappiamo è quanto Savarino e colleghi hanno scritto nella review sul Journal of Clinical Investigation e i particolari in più che ci ha rivelato il dr Savarino:
  •  
    a. in Brasile, sotto la supervisione di Ricardo Diaz, è in corso uno studio clinico di fase II, che include un braccio in cui persone con HIV vengono trattate con ART e auranofin (ma senza BSO) per studiare gli effetti di auranofin sul reservoir virale;

    b. "saranno previsti, tra gli altri, due bracci, uno con mega-ART ed uno con mega-ART ed auranofin (600 mg/die per sei mesi). Si valuterà, oltre ai normali parametri clinici, anche l’andamento del DNA virale e si monitoreranno eventuali effetti collaterali. Come ho sopra accennato, in assenza della doppia inibizione, non vi è da aspettarsi un effetto eclatante, ma questi dati saranno utilissimi per il disegno del futuro trial clinico con auranofin e BSO."
     
La prima differenza che si può notare fra il trial di Miami e quello brasiliano è che nel primo i partecipanti avrebbero dovuto ricevere l'auranofin insieme a una ART standard, mentre nel secondo stanno ricevendo una mega-ART - il che rende il trial brasiliano più simile a quanto Savarino ha fatto con le scimmie. La seconda è che il dosaggio non è a scalare, ma viene data subito la dose maggiore. La terza è che le settimane di somministrazione sono 24 e non 12.

Penso che ne sapremo di più quando i risultati saranno presentati a qualche congresso o direttamente pubblicati.



alfaa
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da alfaa » mercoledì 4 maggio 2016, 12:52

Ok grazie, l importante è che il trial non si sia bloccato e che venga attuato nella sua versione completa iniziale



Keanu
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da Keanu » giovedì 5 maggio 2016, 14:14

Dora perché il protocollo in Brasile prevede solo auranofin, se Savarino già sa, in base alle sue osservazioni che l'effetto sarà scarsissimo? Dovrebbero fare due trial separati, uno per auranofin e l'altro per BSO e poi uno con entrambi? Così è una perdita di tempo e soprattutto denaro! Non capisco perché BSO sia rimasta fuori :roll: :?



Dora
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da Dora » giovedì 5 maggio 2016, 14:51

Keanu ha scritto:Dora perché il protocollo in Brasile prevede solo auranofin, se Savarino già sa, in base alle sue osservazioni che l'effetto sarà scarsissimo? Dovrebbero fare due trial separati, uno per auranofin e l'altro per BSO e poi uno con entrambi? Così è una perdita di tempo e soprattutto denaro! Non capisco perché BSO sia rimasta fuori :roll: :?
Il trial brasiliano non è gestito da Savarino, che se avesse avuto mano libera credo avrebbe volentieri sperimentato il protocollo completo, ma da Ricardo Diaz, che evidentemente ha preferito andare per gradi (anche Chomont a Miami aveva fatto la stessa scelta prudente). Inoltre è solo un braccio di un trial più ampio e sarà senz'altro utile il confronto fra l'effetto sul reservoir di mega-ART da sola e mega-ART + auranofin. Come ci ha spiegato Savarino, servirà a impostare un secondo trial in cui all'auranofin venga aggiunta la BSO.





EDIT (6 maggio): Su OggiScienza è uscito un articolo di Stefano Dalla Casa sulla review di Savarino e colleghi. Dice quello che ho già detto nel post del 2 maggio, ma è un bell'articolo, quindi ve lo segnalo:



Dora
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Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uom

Messaggio da Dora » martedì 17 maggio 2016, 8:04

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Se non l'avessi visto oggi condiviso sulla pagina Facebook di Siliconwadi.it, probabilmente mi sarebbe sfuggito, perché seguire le ricerche sul cancro non è il mio primo obiettivo.
Ma l'ho visto, quindi posso segnalarvi che sul numero di febbraio di Cancer è uscito un articolo del Technion-Israel Institute of Technology di Haifa (anche Moran Benhar, il primo nome della review di Savarino, lavora lì) dedicato a Potential risks associated with traditional herbal medicine use in cancer care: A study of Middle Eastern oncology health care professionals, che integra da un punto di vista diverso quanto abbiamo visto sui rischi che gli antiossidanti possono avere sia nelle persone che hanno un cancro, sia nel far fallire gli studi di una ricerca di una cura dell'infezione da HIV.

Qui viene data l'ennesima conferma - se mai ancora ce ne fosse stato bisogno - che con le erbe e gli antiossidanti bisogna andarci molto cauti, specie se si soffre di patologie serie. Chissà se chi all'Istituto Superiore di Sanità deve supervisionare le ricerche della Dr Meschini sul prunus spinosa e il Trigno M sarà disposto a tenerne conto?



L'articolo di Siliconwadi:

Technion: Erbe medicinali interferiscono con le cure contro il cancro

17 May 2016

Technion: Erbe medicinali interferiscono con le cure contro il cancro. Quasi due terzi delle erbe medicinali usate dai pazienti affetti da cancro in Medio Oriente hanno potenziali rischi per la salute, secondo un nuovo studio israeliano. Queste piante, apparentemente innocue, potrebbero interagire con i farmaci convenzionali per la lotta contro il cancro, come la chemioterapia, influenzando negativamente i trattamenti anti-tumorali.

Lo studio, condotto dal Prof. Eran Ben-Arye del Technion di Haifa, è stato recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Cancer. I risultati evidenziano che i rimedi a base di erbe come la curcuma possono aumentare gli effetti tossici di alcuni chemioterapici, mentre il tè verde potrebbe aumentare il rischio di sanguinamento in alcuni pazienti affetti da cancro. Altre erbe, tra cui il cumino nero, possono ridurre l’efficacia della chemioterapia.

I risultati si basano su uno studio condotto da Ben-Arye e dai suoi colleghi, i quali hanno chiesto a più di 300 fornitori di cure contro il cancro, quali tipologie di erbe medicinali i loro pazienti stessero usando. La ricerca ha scoperto che il 57% dei fornitori intervistati, aveva pazienti che nel corso della malattia avevano utilizzato almeno un rimedio a base di erbe.

In tutto, 29 dei 44 prodotti a base di erbe più popolari in 16 paesi del Medio Oriente – dalla Turchia alla Tunisia – sono stati associati con le preoccupazioni legate alla sicurezza.

Come accennato, i paesi con i più alti tassi di utilizzo di erbe comprendono la Turchia, l’Autorità palestinese e il Qatar. L’Ortica, l’aglio, il cumino nero e la curcuma sono tra le erbe più utilizzate.

Un punto di vista scettico sulla medicina alternativa

I fornitori di cure contro il cancro hanno generalmente una visione scettica di queste medicine alternative, ma lo studio rileva che essi supportano un consulente medico che possa parlare di “efficacia e sicurezza di queste pratiche a base di erbe, insieme a trattamenti convenzionali per il cancro”.

Ben-Arye sottolinea:
  • Nella maggior parte dei casi, i pazienti cercano di combinare il meglio dei due mondi e non percepiscono l’erboristeria come una vera e propria alternativa alla moderna cura oncologica.
Tuttavia, in molti casi, vi è una mancanza di comunicazione tra il fornitore, il paziente e la cura contro il cancro. Secondo lo studio, oltre il 20 per cento dei pazienti che fanno uso di medicine complementari e tradizionali, comprese le erbe sono spesso riluttanti a rivelare questa pratica al loro medico curante.

I ricercatori sperano che il nuovo studio possa invitare i fornitori di cure contro il cancro ad offrire consigli sulla medicina a base di erbe che non siano giudicanti, ma che siano invece uno strumento per migliorare la comunicazione tra medico e paziente.



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