ALZHEIMER

I più importanti avanzamenti medico-scientifici al di fuori del campo HIV.
thelondonsuede
Messaggi: 742
Iscritto il: domenica 18 marzo 2007, 18:19
Località: SARANNO POI CAZZI MIEI UHUHUUHUHU
Contatta:

ALZHEIMER

Messaggio da thelondonsuede » mercoledì 21 settembre 2011, 18:08

Amiloide beta e tau, i primi bersagli
nella sfida possibile della ricerca
Molti aspetti della malattia sono ancora un mistero, ma ogni giorno gli scienziati aggiungono un tassello al puzzle. Gli occhi sono puntati sulle sperimentazioni e quattro sono in fase finale. Intanto il numero dei malati aumenta: nel 2030 saranno più di 65 milioni
di GIULIA BELARDELLI

Amiloide beta e tau, i primi bersagli nella sfida possibile della ricerca
NEW YORK - Il volto è segnato dalle rughe e dalla fatica, ma lo sguardo è puntato più in là, verso un futuro che non si sa dove, ma c'è. Se fosse una persona, è così che ci apparirebbe oggi la ricerca sull'Alzheimer, Odissea, missione e ossessione per migliaia di scienziati in tutto il mondo da quando si è smesso di considerarlo un aspetto intrinseco dell'invecchiamento, il prezzo da pagare per la nostra longevità.

1IL VIDEO 2

Oggi si conoscono alcune delle caratteristiche della malattia, la formazione di placche di amiloide, le disfunzioni della proteina tau, i cambiamenti nelle dimensioni del lobo temporale e dell'ippocampo. L'opinione più comune, tuttavia, è che l'Alzheimer sia il risultato di una lunga catena di eventi i cui collegamenti restano in parte un mistero. Con l'aiuto dello speciale che la rivista Nature 3 ha dedicato all'argomento e il parere di alcuni esperti della Harvard Medical School e del Massachusetts General Hospital di Boston, abbiamo cercato di capire qual è lo stato della ricerca a livello internazionale e cosa possiamo aspettarci per i prossimi anni.

INTERATTIVO 4

I numeri - Secondo i dati della Alzheimer's Disease International, nel mondo lottano contro questa malattia e forme associate di demenza ben 35,6 milioni di persone. Il numero sembra destinato a duplicarsi ogni vent'anni: 65,7 milioni nel 2030; 115,4 milioni nel 2050. Con un carico sempre maggiore sui paesi a reddito medio e basso, e sistemi sanitari e sociali che già ora scricchiolano sotto il peso di una spesa di 604 miliardi di dollari solo nel 2010.

Le cause - Il meccanismo con cui l'Alzheimer provoca la morte dei neuroni non è ancora completamente chiaro: probabilmente non c'è un'unica cascata di eventi, ma diversi sentieri che con il passare degli anni convergono, provocando i sintomi più evidenti. Alcuni passaggi sembrano però più costanti di altri. Molti ricercatori concordano, infatti, sull'ipotesi che l'Alzheimer sia provocato da una amiloidosi (ovvero l'accumulo di proteine nello spazio extracellulare), per cui nel cervello viene generato un eccesso di peptidi della proteina amiloide beta che si raggruppano e formano delle placche.

Queste placche, poi, rilasciano dei frammenti tossici che hanno una serie di effetti estremamente dannosi per il cervello. Tra questi un passaggio chiave è l'iperattivazione della proteina tau. Questa proteina, che è normalmente adibita alla stabilizzazione di elementi strutturali (i cosiddetti microtubuli) nei neuroni sani, nei pazienti con Alzheimer acquisisce troppi gruppi fosfato e inizia a funzionare male: si aggrega dentro i neuroni e fa collassare i microtubuli. Tutto questo groviglio, infine, blocca la comunicazione tra un neurone e l'altro e porta alla creazione di molecole altamente tossiche che causano la morte del neurone.

L'importanza dei biomarcatori - "Uno dei paradossi più grandi dell'Alzheimer consiste nel fatto che al momento una diagnosi definitiva è possibile solo dopo la morte del paziente", spiegato a Repubblica.it Brad Dickerson, professore di Neurologia al Massachusetts General Hospital di Boston 5. "Quando il malato è in vita, la diagnosi si basa principalmente sulla valutazione del comportamento e della memoria e sull'esclusione di altri disordini".

Per questo la comunità scientifica concorda sull'importanza di individuare biomarcatori affidabili, vale a dire indicatori biologici in grado di dire se una persona si sta avviando verso l'Alzheimer o in quale stadio della malattia si trova e/o evolverà. Finora, i ricercatori ne hanno identificati due nel liquido cerebrospinale: uno è il livello totale della proteina tau; l'altro è il livello della già citata amiloide beta. A ciò va aggiunto lo studio dei cambiamenti nella struttura e nel metabolismo del cervello, reso possibile dai progressi nelle tecniche di imaging.

"Oggi ci sono decine di gruppi in tutto il mondo che si stanno muovendo su vari fronti: c'è chi analizza immagini di risonanza magnetica (MRI) e tomografia a emissione di positroni (PET) e c'è chi studia variazioni nella sequenza del DNA e nei pattern di espressione di geni, proteine e molecole immunitarie", ha detto Michael Weiner, coordinatore di un vastissimo studio internazionale chiamato Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative 6 a cui partecipa anche l'Italia 7. "Per ora abbiamo mostrato che la patologia esiste nel cervello molto prima che la malattia si manifesti", ha continuato l'esperto. Da alcuni studi di imaging, in particolare, è emerso che l'accumulazione di placche di amiloide è un processo che può iniziare anche 10-15 anni prima della comparsa dei primi sintomi di demenza.

Imaging biomedico e software - In questo senso le tecnologie di imaging si stanno rivelando fondamentali per scoprire i cambiamenti del cervello correlati al declino cognitivo. A quanto pare nel cervello delle persone affette da Alzheimer si verifica infatti un restringimento progressivo del lobo temporale e dell'ippocampo (la regione cerebrale deputata all'immagazzinamento dei ricordi e all'orientamento spaziale), accompagnato da un ingrossamento dei ventricoli e da una riduzione nell'attività metabolica.

I neurologi del Massachusetts GH di Boston sono convinti che, prima o poi, sarà possibile predire la malattia proprio monitorando le variazioni che avvengono in ognuno dei quattro lobi. "Per ogni lobo abbiamo identificato un set di nove regioni le cui misurazioni possono indicare, con dieci anni di anticipo, se c'è un particolare rischio di sviluppare la malattia", spiega ancora Dickerson. "L'utilizzo di questi indizi è fondamentale per coinvolgere nelle sperimentazioni cliniche i soggetti più adatti, vale a dire quelli in cui l'Alzheimer è ancora latente e i trattamenti mirati a colpire l'amiloide beta potrebbero dare i risultati migliori".

Scoprire i geni in gioco - Una mappa delle mutazioni alla base dell'Alzheimer sarebbe decisiva sia per l'individuazione dei soggetti più a rischio, sia per lo sviluppo di farmaci mirati. La situazione, però, è più complicata che in altre patologie visto che i geni coinvolti sono molti e non sono ancora state comprese tutte le varianti genetiche che hanno un ruolo nel favorire la malattia. Oltre ai casi di Alzheimer precoce, per i quali è noto da tempo il coinvolgimento di geni essenziali alla produzione della proteina amiloide beta, in tutti gli altri casi il puzzle delle mutazioni responsabili è ancora lungi dall'essere risolto. Negli ultimi anni, tuttavia, la ricerca ha fatto notevoli passi in avanti scoprendo decine di mutazioni associate all'Alzheimer per lo più in geni coinvolti nel metabolismo dei lipidi e nel traffico delle proteine.

Proprio per comprendere il ruolo di queste mutazioni, il laboratorio di Mel Feany, ricercatrice della Harvard Medical School 8, sta studiando i geni appena scoperti nel cervello dei moscerini. "Anche se estremamente diversa dall'uomo, la Drosophila ci permette di studiare in due settimane quello che nei topi avviene in un paio di anni o addirittura in un decennio nel caso delle scimmie", spiega la ricercatrice a Repubblica.it. In questo modo il gruppo sta cercando di capire in tempi rapidi cosa avviene a livello molecolare in presenza di una o più mutazioni. Una volta compreso il processo coinvolto e rivelati gli enzimi chiave, allora possiamo sviluppare strategie di intervento selettivamente mirate contro quel target".

Infine, sfruttando l'ascesa delle tecniche di sequenziamento del Dna, sono diversi i centri di ricerca che hanno iniziato a scandagliare il codice genetico dei pazienti, mattoncino per mattoncino, in cerca di una visione completa. "L'unica limitazione è che per scoprire mutazioni rare bisogna studiare migliaia di pazienti, ma questo è sicuramente il nostro prossimo passo", ha affermato Gerard Schellenberg, direttore del Consorzio genetico per l'Alzheimer 9 negli Usa.

Una cura difficile da trovare - Dal punto di vista dei farmaci, le novità più rilevanti risalgono al 2003, quando la US Food and Drug Administration (FDA) approvò il "memantine", il primo di una famiglia di farmaci capaci di rallentare il declino fisico e mentale di persone già cadute nella morsa dell'Alzheimer. Questi composti stimolano l'attività dei neuroni sani e riescono così, per un limitato periodo di tempo, a mascherare la progressione della demenza. Si tratta dunque di trattamenti indirizzati ai sintomi della malattia, piuttosto che alle sue cause nascoste. Negli ultimi anni, invece, l'attenzione dei ricercatori si è concentrata soprattutto su questo secondo binario, aprendo nuovi scenari e al contempo raccogliendo i primi insuccessi.

"Ci possono volere 10 anni e almeno 2 miliardi di dollari per portare un nuovo farmaco in clinica", spiega Neil S. Buckholtz del National Institute of Aging di Bethesda 10 (Maryland). "I rischi di fallimento sono molto alti per i farmaci che prendono di mira il cervello. E la ricerca sull'Alzheimer deve ancora capire in che misura la presenza di depositi anormali delle proteine amiloide beta e tau sia da considerarsi una causa piuttosto che un prodotto secondario".

Le speranze sui trial in corso - Al momento, quattro farmaci sono nella fase di sperimentazione 3, ovvero quella decisiva per determinare l'efficacia su un gran numero di pazienti. Di questi, tre hanno come obiettivo l'amiloide. "Il motivo per cui le compagnie farmaceutiche si sono concentrate soprattutto su questo aspetto affonda le sue radici negli anni Novanta, quando gli scienziati riuscirono a connettere la patologia di amiloide beta a tre geni in particolare", spiega Sam Gandy dell'Alzheimer's Disease Research Center della Mount Sinai School of Medicine, 11 a New York. "Il punto, però, è che le mutazioni di questi tre geni sono certamente responsabili solo quando la malattia è ereditaria e precoce, ossia nel 3-5% di tutti i casi di Alzheimer".

La corsa delle aziende farmaceutiche - Per il resto non ci sono certezze assolute, ma solo la convinzione che la proteina amiloide beta svolga comunque un ruolo di primo piano in tutte le forme di demenza. Contro di essa, compagnie farmaceutiche come Pfizer, Eli Lilly, Baxter, Elan e Bristol-Myers Squibb stanno testando molecole in grado di bloccare la formazione del peptide o capaci di favorire l'eliminazione degli aggregati nel cervello utilizzando anticorpi specifici. Agguerrite contro tau sono invece le aziende farmaceutiche Noscira, Allon e TauRx Pharmaceuticals, che stanno studiando farmaci capaci di bloccare l'iperattivazione della proteina o di impedirne la formazione di aggregati.

Oltre a questi approcci che mirano alla radice della malattia, altri studi stanno testando target terapeutici con l'obiettivo di ridurre o addirittura annullare gli effetti dannosi della amiloide beta e tau, piuttosto che eliminare le due molecole in questione. Su questo la Ceregene ha ideato un approccio di terapia genica che potrebbe rendere i neuroni più resistenti, mentre la Pfizer, in collaborazione con Medivation, sta sperimentando in un trial di fase 3 un farmaco in grado di stabilizzare i mitocondri e dunque proteggere i neuroni da alcuni degli effetti tossici della proteina amiloide beta. "Non saranno delle cure", ha spiegato Mark Tuszynski, ricercatore della University of San Diego 12 e ideatore dell'approccio di terapia genica. "Ma la speranza è che rafforzino abbastanza i neuroni da rallentare il declino cerebrale e migliorare così la qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie".

(20 settembre 2011)

http://www.repubblica.it/salute/ricerca ... ef=HREC2-6