Premessa: due interventi, uno di Leon e uno mio, scritti in altro (ma collegato) forum qualche mese fa (http://hivforum.0sites.net/forum/viewtopic.php?f=4&t=27).
****************************************************************Leon ha scritto:
All'ICAR 2011 (Firenze, 27-29 marzo scorsi), la dottoressa Laura Rancilio, del Coordinamento Regionale delle Case Alloggio per persone con HIV/AIDS della Lombardia, ha presentato una relazione dal titolo "2007-2010: Accoglienza diurna per PLWHA [= persone con HIV/AIDS] nella Regione Lombardia", anche se in realtà riguarda l'accoglienza in generale (anche residenziale/h24, intendo) ( http://icar2011.it/It/News/News_Detail. ... Master=189 -> cliccare su "Clicca qui" -> cliccare su "Relazioni: 129" -> cliccare sulla terza relazione del gruppo "Oral Communications - Session II - Epidemiology And Prevention").
E' senz'altro una relazione che vale la pena ascoltare, e non solo perché costituisce una mirabile dimostrazione del principio che "sfiga genera sfiga" (per chi nutrisse dubbi in proposito), ma anche perché, cifre alla mano, fa vedere che di assistenza/accoglienza extraospedaliera, alla faccia della HAART, continua a esserci un gran bisogno (e infatti le poche strutture esistenti - e già in Lombardia è una festa! - sono tutto fuorché sottoutilizzate).
Per evitarvi concenti delusioni, anticipo però subito che DI PROGETTI E DI SVILUPPO NEMMENO SI ACCENNA; anzi, la bella conclusione è che, siccome i centri diurni costano di meno, sarà il caso che i malati vedano di arrangiarsi con quelli (altro che "residence" alla tedesca!).
Le diapositive sarebbero da riportare dalla prima all'ultima e quindi lascio perdere, mettendone solo alcune riguardanti numeri bruti e costi:
Dora ha scritto:Mer 28 Ott, 2009
Qualche domanda alla Dottoressa Laura Rancilio, Vicepresidente del Coordinamento Italiano Case Alloggio per persone con HIV/AIDS (CICA) e responsabile del Progetto C.E.R.C.A.RE.
Ancora una volta, l’impressione che chi davvero “si sporca le mani” abbia una visione molto più duttile della realtà di quanto si può immaginare perdendosi fra le leggi a matrioska. Grazie, davvero di cuore, per l’ora e più di chiacchierata che ci ha dedicato.
• Come si organizza una casa alloggio? E, più in particolare:
- chi la possiede?
- chi la gestisce?
- chi si occupa della formazione dei dipendenti e dei volontari?
- i rimborsi regionali sulle rette degli ospiti sono sufficienti a coprire i costi o dovete ricorrere ad altri finanziamenti? ricevete donazioni?
Le case alloggio in Italia sono nate prima ancora della Legge 135/1990, tant’è vero che trovano un riconoscimento nella 135/90 come domicilio per persone con HIV/AIDS che non hanno una propria abitazione. Per cui, quando si parla di assistenza domiciliare, si fa riferimento o alla casa del paziente o alle residenze collettive che si chiamano “case alloggio”.
Le case alloggio erano nate sulla spinta o di enti che seguivano i tossicodipendenti in comunità e che si erano presi l’HIV, oppure su sollecitazione di enti religiosi per dare accoglienza, allora, soprattutto a tossicodipendenti in fase terminale che dovevano essere dimessi dagli ospedali.
Prima sono nate queste risposte di accoglienza veloce, in piccoli nuclei abitativi; poi questi nuclei hanno trovato via via una collocazione: sono nati spontaneamente dal privato sociale e dal volontariato nelle sue diverse espressioni.
Fin dall’inizio, il modello cui fanno riferimento si differenzia dalle comunità di recupero per tossicodipendenti, perché queste avevano l’obiettivo di sganciare le persone dalla dipendenza; invece le case alloggio sono state fin da subito un luogo di accoglienza (infatti si chiamano “case” e non “comunità”), un luogo di vita per persone molto gravi, che vi trascorrevano l’ultimo periodo della loro esistenza.
Quando con la HAART la speranza di vita aumenta, allora ci si apre all’obiettivo del recupero sociale e si ha una sostanziale modifica dei percorsi esistenziali delle persone accolte.
Fra fine anni ’90 e inizio 2000, anche noi ci siamo illusi che con le nuove terapie le persone potessero tornare a una vita attiva e piena; poi c’è stata la delusione e l’assestamento: alcune persone con gravi compromissioni hanno recuperato, ma solo in parte; molte persone che accogliamo hanno problemi epatici importanti o altre patologie, che rendono di fatto difficile un pieno recupero.
E’ difficile dire chi possieda la casa, perché sovente gli edifici sono dati ad associazioni in comodato gratuito o in affitto iper-clamierato da qualche altro ente, che glieli dà in uso. Normalmente la casa si identifica con l’ente che la gestisce.
In Italia non ci risulta nessuna casa in gestione pubblica: non c’è nessuna struttura d’accoglienza gestita direttamente da un ente pubblico; tutto è del privato sociale. Si agisce mediante convenzioni: le Regioni si convenzionano, attraverso le ASL, con queste strutture, perché le case alloggio diventino il luogo di assistenza domiciliare per chi non dispone di una casa.
Non c’è quasi mai un accreditamento, oggi; in molte Regioni (compresa la Lombardia) c’è un convenzionamento, anzitutto perché – tranne che in Lombardia – in molte Regioni di case ce ne sono pochissime. Dal centro-sud in giù (ma anche in Liguria) praticamente non ce ne sono. Ciò in parte può dipendere dalla minor presenza di persone HIV positive, ma anche dalla diversa organizzazione sociale. In Liguria o in Lazio ci sono pochissime case (2 in Liguria, 6 nel Lazio, 1 in Abruzzo e in Puglia), con però molte persone che ne avrebbero bisogno. Ne consegue che spesso queste regioni “esportano” pazienti in altre Regioni.
Una grande diversità è data anche dal fatto che oggi abbiamo una indicazione nei LEA (*) secondo cui l’assistenza di tipo residenziale per persone HIV positive deve essere prevista in tutte le Regioni, ma questa applicazione varia da una Regione all’altra, sia dal punto di vista dell’organizzazione della casa e dell’equipe che vi lavora (ci sono Regioni che, ad esempio, prevedono la presenza dell’infermiere 24 ore su 24, altre che lo richiedono al bisogno); sia perché alcune strutture sono più di tipo assistenziale, altre più di tipo educativo, per cui la tipologia delle case è davvero molto variegata.
Un’altra grande differenza la troviamo riguardo alle rette: le rette sono stabilite a livello regionale e sta alla contrattazione a livello regionale arrivare a definire la retta da imporre alla casa. Comunque sia, nulla viene richiesto all’utente e tutto è pagato dal SSN (unica eccezione: i LEA applicati in Lombardia, dove le case a bassa intensità assistenziale vedono una compartecipazione al 30% dell’utente – o del Comune, che se ne fa carico dove l’utente non può. Mancano però indicazioni chiare a livello regionale e nazionale, perché alcuni comuni chiedono all’utente solo l’indennità di accompagnamento, altri invece vanno a toccare anche la pensione di invalidità, altri chiedono una compartecipazione alla famiglia, con una diversità a macchia di leopardo sullo stesso territorio lombardo).
Per quanto riguarda i costi che le case si trovano ad affrontare, non tutto viene coperto dal contributo regionale. Se una casa desidera organizzare qualche attività (un laboratorio, una vacanza, un operatore in più), deve trovare altri fondi per finanziarsela.
Per quanto infine concerne la formazione del personale, da anni abbiamo chiesto che a livello nazionale e a livello regionale si possa pensare che la formazione fatta per il personale ospedaliero su fondi della 135/90 venga aperta sia al personale dei servizi pubblici territoriali, sia al personale dei servizi privati.
Riteniamo molto importante arrivare a garantire una formazione condivisa a tutti gli operatori del pubblico e del privato sociale che lavorano sull’HIV nel territorio.
Questo non ci è stato ancora concesso; quello che però cerchiamo – come CICA – di garantire è una formazione condivisa almeno una volta all’anno a livello nazionale e almeno una volta all’anno in ciascuna Regione. Questo è lo standard minimo di formazione condivisa che cerchiamo di avere. Poi ciascuna casa si impegna a partecipare ad altri corsi di formazione su temi che ritiene fondamentali, a fare formazione ai volontari, etc. Tutto con fondi nostri.
Non è una fonte di guadagno: chi oggi gestisce una casa alloggio non lo fa per motivi di lucro. E’ il privato sociale no-profit che le gestisce e non si diventa ricchi con le case alloggio.
• Nella vostra relazione caldeggiate “risposte innovative ‘leggere’ e a bassa intensità assistenziale, che permettano agli ex ospiti delle case di vivere in condizioni di ‘autonomia protetta’”. Quanto è realistico prevedere un potenziamento di queste soluzioni?
Trovare risposta presso le istituzioni non è facile. Qualcosa si riesce ad avere, ma ci deve essere un Comune particolarmente attento alle esigenze delle persone perché, per legge, il reinserimento sociale è a carico dei Comuni. Tuttavia, in questo momento i Comuni, soprattutto quelli piccoli, hanno risorse scarsissime ed enormi difficoltà a garantire una serie di servizi sociali.
Diventa quindi estremamente complesso riuscire a trattare su queste questioni.
Inoltre, al di là delle soluzioni abitative “leggere”, una persona da un lato non vive con la sola pensione di invalidità, dall’altro ha bisogno di soluzioni abitative permanenti.
L’esperienza dei residence in Italia non è mai stata davvero sperimentata; è stata invece praticata soprattutto nel Nord Europa. Il modello tipicamente italiano di struttura di accoglienza vede una casa in cui le persone vivono insieme.
• Avete osservato, negli ultimi anni, dei cambiamenti nell’utenza?
Abbiamo persone di fasce d’età più elevate rispetto al passato, sia perché accogliamo ospiti che hanno avuto diagnosi in età più avanzata, sia perché sono invecchiate persone che sono HIV positive già da anni.
Inoltre, soprattutto in Lombardia, vediamo l’accoglienza di persone molto più compromesse dal punto di vista clinico, rispetto anche solo a qualche anno fa; la somma di coinfezioni sta aumentando.
D’altra parte, chi viene accolto nelle nostre strutture, in genere non può beneficiare di assistenza al proprio domicilio o perché non ha un domicilio o perché non ha una rete sociale che si faccia carico della gestione a casa della sua malattia, quindi è persona che proviene da situazioni particolarmente disagiate.
• In che cosa si sono modificate le esigenze clinico-sanitarie e socio-assistenziali dei vostri ospiti?
In genere, dal punto di vista della disabilità fisica, abbiamo molte persone per esempio in carrozzina e abbiamo anche non pochi segnali della sofferenza a livello neurologico o psichico.
Dal punto di vista delle esigenze assistenziali, notiamo una grande fatica a trovare delle risposte reali nel tessuto sociale al di fuori della casa alloggio: mancano case, mancano lavori o occupazioni di qualsiasi genere, anche solo per occupare il tempo per chi non può lavorare, risorse di “buon vicinato” sul territorio.
La “povertà di contesto” di cui abbiamo tanto parlato nella relazione non è riferita soltanto ai nostri ospiti, ma si riferisce anche più generalmente al contesto familiare e sociale.
Molto ancora conta la difficoltà di accettazione sociale della patologia.
La Regione Campania, invece, ha fatto una delibera interessantissima per dei progetti sperimentali di reinserimento sociale: una Regione che consideriamo meno attenta, più disagiata e che è arrivata molto tardi ad avere strutture di accoglienza, perché le due case di Napoli sono state aperte da pochi anni, ha cercato di capire come rispondere ai bisogni delle poche persone assistite.
In Lombardia non c’è nulla di analogo: esiste un progetto sperimentale (che però è sperimentale dal 2001) sugli appartamenti fatto con il Comune di Milano, ma che rimane a tutt’oggi sperimentale. Mancano le risorse sia materiali sia di pensiero per poter progettare davvero: è un progetto che viene finanziato per sei mesi, poi sta fermo un anno, poi viene ripreso a singhiozzo. È chiaro che diventa impossibile tirare le fila e investirci risorse.
• Nella vostra relazione, un posto di assoluta evidenza ha ricevuto la questione del disagio psichico/psichiatrico: riportate delle percentuali davvero allarmanti (48%), ma soprattutto un trend che pare in crescita per così dire “esponenziale” (dal 33% di una precedente rilevazione, al 48% della ricerca, per arrivare a un 62% meno di due anni dopo). L’ipotesi da voi avanzata nelle conclusioni è di una scarsa penetrazione della HAART al di là della barriera emato-encefalica. Ciò fa presupporre che riteniate l’incidenza dei problemi psichici correlata con l’evoluzione della malattia da HIV o con gli effetti delle terapie. È così? Può essere più precisa?
Anzitutto, i dati presentati nella newsletter di settembre dove si parla di un 62% di disagio psichico sono relativi solo alla Lombardia, le cui case hanno autonomamente continuato a raccogliere dati sulla base del modello elaborato per il progetto.
I dati italiani non sono ancora arrivati tutti ma, a causa della enorme preponderanza degli ospiti delle case lombarde, questa percentuale potrebbe risultare forse un po’ ridimensionata, ma difficilmente sarà smentita.
Bisogna aggiungere che il disagio di cui parliamo è generico ed estremamente vario e non si basa su una diagnosi psichiatrica certa. Infatti, raccogliamo da un punto di vista fenomenologico malesseri vari fino a diagnosi che spaziano dalla depressione, a problemi cognitivi, alla demenza, alla vera e propria schizofrenia.
Volevamo un indicatore che ci desse l’idea della fatica assistenziale, perché di fatto non ci cambia molto - dal punto di vista assistenziale – sapere se un ospite è schizofrenico o paranoico. Poi riceverà farmaci diversi, ma dal punto di vista dell’organizzazione, quello che conta è che c’è necessità di assistenza psichiatrica.
Riteniamo comunque che questo “disagio” possa molto spesso essere correlato alla malattia da HIV. È vero che ci sono casi di patologie psichiatriche precedenti l’infezione, così come è vero che la tossicodipendenza o l’alcolismo possono rendere una persona più vulnerabile e a rischio di infettarsi. Ma certamente i danni diretti e indiretti dell’HIV a livello del sistema nervoso centrale non sono da sottovalutare.
• Sempre riguardo al disagio psichico di tanti vostri ospiti, evidenziate l’incremento del carico assistenziale richiesto ai vostri operatori e, di conseguenza, la necessità di implementare la formazione in senso psichiatrico delle equipe. Che cosa avete fatto o state facendo in questa direzione? Quale aiuto vi viene dalle istituzioni? Quali rapporti avete con gli psichiatri? È almeno dal 2000 che gli psichiatri hanno lanciato un appello – ribadito per esempio a un convegno AISEL del 2003 – a stendere delle linee guida per organizzare un servizio che contempli doppie o triple diagnosi. Che cosa si è fatto da allora?
Noi, almeno in Lombardia, facciamo una certa fatica a relazionarci con le aziende ospedaliere e i dipartimenti di salute mentale, che sono restii a prendersi in carico le persone che noi accogliamo, perché sono pazienti piuttosto difficili o con prognosi peggiori rispetto a pazienti esclusivamente psichiatrici.
Genericamente, è vero che ci sentiamo un po’ abbandonati dagli psichiatri. Ci sono tuttavia delle lodevoli eccezioni.
La Regione Lombardia ha steso delle linee guida per la salute mentale, ma al loro interno non è dato molto spazio per le persone con HIV. È vero che si parla di doppie diagnosi, quindi di rapporti fra SERT e CPS, tuttavia molto è rimasto sulla carta.
Un’altra delle difficoltà che incontriamo oggi è relativa alle persona anziane e HIV positive: almeno in Lombardia, in collaborazione con la Regione, stiamo cercando di facilitare il loro inserimento nelle strutture residenziali per anziani.
Qui però dobbiamo di nuovo combattere contro la disinformazione del personale assistenziale di base. La Regione stessa ha cercato di fare corsi di formazione per il personale delle residenze per anziani, con risultati molto diversi e poco incoraggianti.
• Avete evidenziato l’isolamento sociale e la “povertà di contesto” di moltissimi vostri utenti. Questo significa sia povertà economica sia mancanza di opportunità lavorative e/o abitative anche quando le condizioni di salute non ostacolerebbero una vita autonoma. D’altra parte, sostenete che “le istituzioni sembrano avere una rappresentazione delle case alloggio come meri contenitori di persone non guaribili rispetto alle quali non vale la pena investire per un reinserimento il più delle volte improduttivo nella società”. Che cosa ritenete che si possa fare per far fronte a questo problema?
Noi del CICA non demordiamo nel tenere i collegamenti con le istituzioni: è fondamentale continuare a tessere quel po’ di rete possibile con istituzioni che hanno competenze e responsabilità diverse. Altrimenti, uno dei grossi rischi è che ospedali, ASL, Comuni (e assessorati diversi all’interno dei Comuni) e Regioni non si parlino e quindi che ciascuno si limiti a fare quel po’ che gli spetta, senza costruire collegamenti che sono indispensabili per uno sforzo congiunto.
• Su più fronti in campo clinico viene avanzata l’ipotesi di un invecchiamento precoce dei pazienti HIV positivi. Se questa ipotesi troverà conferma, il rischio di un grande incremento del numero dei vostri ospiti sarà concreto. Sarete in grado di rispondere a una vera e propria emergenza sociale?
Da soli sicuramente no.
Il riuscire a trovare degli sbocchi adeguati non solo qui, ma in tutt’Italia, verso le strutture che usualmente si occupano di anziani diventa fondamentale e prioritario.
Già in questo momento molte Regioni vivono l’emergenza di liste d’attesa lunghissime per entrare in casa alloggio. La Regione Lazio ha delle liste d’attesa di un paio d’anni.
Da un lato le strutture sono poche, dall’altro chi potrebbe uscire dalla casa non ne esce, perché non sa dove andare né come mantenersi.
La Regione Liguria ha chiesto ad una delle due case presenti di aumentare il numero di posti e l’ha vincolata anche ad accogliere donne, perché fino ad ora non c’era una casa che accogliesse donne in Liguria (così come in Sardegna, nell’unica casa esistente). Questi sono dei vincoli che, in Regioni con pochissime case, diventano davvero problematici.
• Se questa ipotesi dell’invecchiamento precoce verrà confermata, per una fascia consistente della vostra utenza verrà meno la prospettiva di un reinserimento a pieno titolo nel mondo sociale e del lavoro. Siete pronti a ripensare uno dei cardini della vostra filosofia e a farvi carico di una grave diminuzione della speranza che tanta parte ha nel sostenere il vostro difficile lavoro?
In realtà, al di là della questione dell’aumento degli “anziani”, noi stiamo già facendo i conti con molte persone in condizioni cliniche e assistenziali che rendono estremamente difficile un pieno reinserimento sociale. Stiamo già vedendo persone accolte nelle case da più di 5 anni.
Quello che, però, ci poniamo come obiettivo assoluto è che non vogliamo diventare “cassonetti della spazzatura”: un luogo di invisibilità, dove le persone che hanno i maggiori problemi vengano concentrate e poi dimenticate è inaccettabile.
Quali necessità si porranno in futuro, nel rispetto assoluto dei bisogni della persona e nel cercare comunque di dare ai nostri ospiti prospettive di vita diverse, questo lo vedremo quando si verificheranno. Non siamo chiusi a cambiare; siamo chiusi a diventare dei luoghi di delega degli obblighi della società a prendersi cura dei propri malati.
(*) I LEA sono i Livelli Essenziali di Assistenza
(cfr. http://www.ministerosalute.it/programma ... ea/lea.jsp)
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Mer 30 marzo 2011
Ho appena riletto l'intervista alla Dottoressa Rancilio di un anno e mezzo fa e, anche senza andare a fare confronti puntuali fra le nuove diapositive e i dati del progetto "CERCARe" di cui ci siamo occupati allora, quel che mi sconvolge di più è vedere che non solo non sono stati fatti passi avanti, ma sembra invece che se ne siano fatti indietro.
Eppure che i problemi psichiatrici degli ospiti delle case fossero in aumento esponenziale si sapeva già allora, così come - per limitarmi agli esempi più vistosi - si sapeva dei problemi incontrati dai Centri Diurni (che rabbia pensare che proprio questi debbano essere la soluzione di ripiego, dopo aver visto come vengano sottoutilizzati per il modo stesso in cui sono impostati! Cfr. il resoconto della visita al Centro Diurno "Gabrieli" (*)), dell'impossibilità di trovare un impiego ancorché NON dignitoso che integri la pensione di invalidità, per non parlare dell'impossibilità di trovare un'abitazione autonoma.
E ci limitiamo alla Lombardia. Chissà se le liste d'attesa in Lazio sono passate da due a quattro anni. Nel frattempo, che si fa?
Nessun accenno all'utilizzo delle case di riposo che, allora, la Rancilio vedeva come una possibilità da esplorare.
(il sogno del residence, al momento, continua ad essere un bel sogno)
(*)
Ven 06 Nov, 2009
Flavio ed io abbiamo incontrato Paola, la responsabile del Centro Diurno “Teresa Gabrieli” della Caritas, l’unico centro aperto a Milano nel luglio 2006 per offrire “attività di riabilitazione e socializzazione” a persone HIV positive, cinque giorni a settimana, dalle 9 alle 16.
A lei un grande grazie da parte di tutti e due per l’ora e mezza che ci ha dedicato.
• Come nasce e si struttura questo Centro diurno?
Nel luglio 2006 è stato iniziato il progetto sperimentale di un Centro diurno, poiché una delibera regionale dava la possibilità di tentare un’esperienza a regime di diurno. Il servizio è gestito dalla Cooperativa Filo d’Arianna ed è promosso e finanziato dalla Caritas.
La filosofia d’intervento è quella dei servizi forniti dalla Caritas: non mi riferisco agli standard sanciti dalle varie delibere riguardo alla struttura dell’edificio, alla formazione del personale, all’impianto organizzativo dell’equipe, quanto al lavoro educativo che qui si svolge e al tipo di rapporto che viene instaurato con gli utenti. Per esempio, noi – nel nostro concetto di “prossimità” – riteniamo che questo servizio non debba mai rifiutare nessuno e che ogni segnalazione debba trovare una risposta.
• Come è possibile, allora, che in una città come Milano abbiate solo dieci utenti? Dovreste essere invasi.
Questa è una domanda che ci stiamo ponendo anche noi, perché stiamo di fatto rischiando la chiusura per mancanza di utenti.
C’è una delibera regionale che ci dice che possiamo accogliere 10 ospiti contemporaneamente al giorno, perché così è previsto dal rapporto fra presenze e standard strutturali.
Tuttavia, la realtà è che questi utenti noi non li abbiamo e non capiamo il perché. Stiamo discutendo con la Regione e soprattutto con la ASL (il servizio inviante: AEOMA – Assistenza Extra Ospedaliera Malati di Aids – le solite due signore del Centro di Viale Jenner [una l’abbiamo incontrata proprio uscendo dal Centro, sembra che molto spesso passi da queste parti]) e con l’assistenza domiciliare, con cui abbiamo un rapporto continuo e di totale collaborazione.
Il servizio inviante recupera le segnalazioni sul territorio; le nostre solite due signore vanno a fare delle visite domiciliari, incontrando i pazienti e arrivando a definire con loro un piano di intervento, che può comprendere il contatto con l’ospedale, l’assistenza domiciliare e, quando ci sono le condizioni, allora viene proposto il Centro diurno.
Il Centro è strutturato in modo da avere a disposizione un pullmino, attrezzato al trasporto di disabili, che la mattina passa a prendere a casa gli utenti. Arrivano e facciamo colazione insieme. Poi dalle 10 alle 13 possono scegliere fra tre diversi laboratori (pittura, maschere, candele). La nostra scelta è stata di fondare il nostro servizio sulle attività manuali di laboratorio, perché abbiamo visto che venire qui a parlare in gruppo della propria storia non funziona con utenti che sono liberi cittadini adulti; invece il loro bisogno primario è uscire di casa e avere da fare qualcosa che si avvicini il più possibile a un lavoro e che consenta loro di passare del tempo realizzando delle cose.
Proponiamo dei laboratori che rispettino la loro età adulta, che consentano di avere dei prodotti finali che siano oggettivamente belli e che permettano di lavorare e superare i limiti fisici sovente imposti dalla malattia (abbiamo parecchi utenti per esempio emiplegici): il prodotto finale torna all’ospite come la possibilità di aumentare la propria autostima e di presentarsi all’esterno (vengono fatte mostre aperte a tutti) attraverso delle risorse e non delle mancanze.
Noi educatori parliamo anche delle mancanze, anche della malattia, ma cerchiamo soprattutto di valorizzare le capacità residue.
• Mi scusi, la interrompo e spero non consideri la mia domanda provocatoria: lei usa il termine “educatori”. Perché vi vedete come educatori? Avete a che fare con degli adulti; è vero che sono persone malate, che vivono con un handicap che impedisce loro di agire nella società come persone sane. Ma perché ritenete che queste persone debbano essere “educate”?
Bisogna intendersi sul termine “educare”: significa “tirare fuori”. Nella nostra accezione, essere “educatore” qui dentro significa essere la persona che stimola alla ricerca di strade che consentano ai nostri ospiti di tirare fuori ciò che magari è rimasto sepolto o neppure sapevano di avere.
Noi proponiamo un modello che può non andare bene per tutti, ma la maggior parte delle persone che passano di qui il concetto di “arte” non l’ha mai incontrato, se non in precedenti esperienze in comunità come le case alloggio.
In questo senso parliamo di noi come “educatori”: vogliamo essere stimolo a cercare delle strade per produrre dei cambiamenti. Non pensiamo certo di imporre un modello educativo; nessun atteggiamento paternalistico: noi non riteniamo di lavorare sul gruppo, ma con il gruppo, nel senso che da un lato valorizziamo le peculiarità di ciascuno, dall’altro riconosciamo che su alcune cose gli ospiti che frequentano questo servizio sanno tanto più di noi.
I nostri utenti sono tutte persone in AIDS conclamato e molte affrontano la malattia allo stato terminale, quindi per tutto quel che riguarda la gestione del pensiero della morte siamo noi a dover imparare da loro.
Per esempio, noi non abbiamo un regolamento. Abbiamo una Carta dei servizi che spiega chi siamo e come operiamo, ma non dà le regole per frequentare il Centro.
Qui abbiamo stimolato la nascita di una cultura di gruppo, che va modificandosi nel tempo in base ai cambiamenti dei bisogni e degli utenti e che viene tramandata ai nuovi arrivati.
• Come si finanzia il Centro? A quanto ammontano le rette giornaliere degli utenti e chi se ne fa carico?
L’apertura del Centro diurno è stata consentita dai fondi di un progetto CEI; i muri sono messi a disposizione in comodato d’uso dalla Caritas. Per ora è la cooperativa a sostenere tutti i costi.
La retta – 51 € al giorno – è totalmente a carico della ASL ed è pagata sulla base della effettiva presenza giornaliera. Oggi abbiamo tre ospiti, quindi percepiamo 153 €.
Il problema è che dobbiamo comunque garantire un’equipe, retribuendo i professionisti.
Il rischio di una prossima chiusura è concreto e dobbiamo capire se questo servizio può reggersi in piedi nel modo in cui è stato concepito.
• Mi scusi, la interrompo di nuovo perché vorrei capire se in altre città centri analoghi a questo abbiano più successo. È una sventura milanese quella di essere pieni di buona volontà ma privi di utenti?
Nelle case alloggio in Lazio ci sono liste d’attesa di due anni; significa che c’è un’utenza che non si sa come aiutare. Tuttavia, evidentemente il modello “casa alloggio” risponde alle necessità di quell’utenza, altrimenti non resterebbero in attesa. Forse, invece, questo modello che voi proponete di Centro diurno non serve, non piace oppure non è conosciuto. È come se voi non foste né carne né pesce: non siete l’assistenza domiciliare, non siete la casa alloggio come istituzione totale. Significa forse che non vi siete ancora caratterizzati a sufficienza?
Abbiamo contatti con l’equipe del Centro diurno “Isabella” di Masciago Primo, collegata alla ASL Varese, e sono nella nostra stessa situazione.
Sicuramente concorrono più fattori: stiamo pensando di riproporre la pubblicità del sevizio attraverso dei volantini.
• Va bene la pubblicità, ma è la ASL che segnala il bisogno. Inoltre non capisco come mai dalla ASL passino 200 persone quando si calcola che nella sola Milano 1500 siano in AIDS conclamato. Dove sono gli altri? Sono così ricchi e fortunati da non avere bisogno dell’assistenza extra-ospedaliera pubblica?
Alcune situazioni vengono segnalate alla ASL dagli ospedali, dai reparti di degenza. Ma anche un cittadino può fare questa segnalazione. Il problema è che forse non si sa che questo servizio esiste.
Stiamo discutendo sia con la Regione sia con la ASL per capire dove finiscano tutte queste persone. Non sono però in grado di dare una visione d’insieme, perché il Centro diurno è un punto terminale della rete, con una visione molto parziale del problema.
Si aggiunga il fatto che il modello di Centro diurno che noi proponiamo non ha una storia sociale: ce lo stiamo inventando noi in questi anni.
• Come si compone l’equipe che lavora nel vostro Centro?
Siamo due operatori a 38 ore, un operatore socio-sanitario a 25 ore, un autista, un maestro decoratore a 9 ore, una signora che viene un’ora al giorno a fare le pulizie.
Per come è strutturata l’equipe, possiamo ricordare all’utente di prendere la terapia, ma non possiamo per esempio fare ogni tipo di medicazione.
Noi educatori prepariamo il pranzo e anche la cucina viene impostata come laboratorio, anche per fortificare alcuni ruoli all’interno del gruppo.
Tuttavia, nulla è obbligatorio. Quindi se un ospite viene e non ha voglia di fare niente, può starsene seduto a guardare lavorare gli altri.
Abbiamo pochissimi volontari, perché siamo aperti in orari di lavoro.
• Chi si occupa della formazione del personale?
La formazione è continua, perché la nostra utenza ci mette continuamente di fronte a quel che ci manca, quindi ci obbliga a rivedere costantemente i nostri modelli e schemi di azione.
Siamo inoltre a contatto con vissuti estremamente distruttivi, spesso anche di morte e con patologie psichiatriche di non facile gestione, così come con biografie che sono molto diverse dalle nostre, pertanto una formazione continua è una necessità.
Abbiamo delle supervisioni mediante psicodramma organizzate ogni 15 giorni dalla Cooperativa Filo d’Arianna. Questo consente anche di creare il clima adeguato all’interno dell’equipe per gestire situazioni che sovente sono molto difficili.
Fondamentale è per noi il rapporto costante con l’assistenza pubblica del servizio inviante, cui possiamo fare riferimento per qualsiasi necessità e con cui possiamo discutere ogni nostro limite.
È il centro della ASL che coordina tutto il progetto per ogni singolo utente e che quindi è in grado di darci tutte le informazioni e tutto l’appoggio che ci serve per gestire anche le situazioni più complesse.
Questo è davvero uno dei casi in cui il rapporto fra servizio pubblico e privato funziona al meglio.
Credo di poter sostenere che il servizio inviante, per noi, è parte della squadra e questo paga nel valorizzare il servizio offerto ai nostri utenti, perché ci consente da un lato di elaborare insieme al pubblico sia i bisogni sia le difficoltà che emergono di volta in volta, dall’altro di evitare una frammentarietà nell’assistenza ai nostri ospiti che è per loro fonte di estremo disagio. È vitale offrire loro un unico punto di riferimento per tante esigenze diverse, sia sanitarie sia assistenziali.
• Chi sono gli utenti?
Ci arrivano persone uscite dalle case alloggio, così come persone che in casa alloggio non andrebbero mai, poiché rifiutano qualsiasi percorso riabilitativo in comunità. Ci arrivano pertanto persone anche fortemente compromesse.
Cerchiamo, nei limiti del possibile (non siamo sanitari), di accogliere tutti, ma cerchiamo anche di fare un lavoro di rete: laddove possibile, ci coordiniamo con gli altri servizi, per esempio per l’assistenza domiciliare.
Cerchiamo anche di essere elastici nei confronti degli abbandoni o della recrudescenza di dipendenze (in quei casi ci coordiniamo con i SERT).
• Quali sono i bisogni dei vostri ospiti?
Ci sono bisogni estremamente differenziati: accogliamo persone che desiderano trascorrere la giornata in compagnia, impegnate in attività interessanti, ma anche persone che vivono in condizioni di degrado inimmaginabili: non hanno modo di farsi un bagno o una lavatrice o di cucinare un pasto caldo. Abbiamo utenti che, a Milano nel 2009, vivono in case senza acqua calda (parte dell’assistenza domiciliare consiste proprio nel rimettere in sesto certe case che mancano dei più basilari servizi igienici).
• Quali sono i rapporti con la casa alloggio qui a fianco [la casa alloggio “Teresa Gabrieli”, una comunità di tipo familiare, per 10 ospiti malati di AIDS in convenzione con ASL Milano e gestita sempre dalla Cooperativa Filo d’Arianna]?
I rapporti sono molto delicati, perché la casa alloggio è una comunità ad alta integrazione sanitaria, con ospiti in condizioni particolarmente compromesse. Quindi i nostri utenti tendono a sfuggire l’incontro, perché loro hanno una vita al di fuori e non amano né sentirsi paragonati a chi sta peggio, né entrare in dinamiche di gruppo assai più coercitive rispetto a quelle che vigono da noi.
Ogni giovedì abbiamo dei gruppi di attività aperti alle due strutture, ma gli ospiti del Centro diurno si rifiutano di partecipare. Sono invece più disponibili nei confronti di laboratori comuni.
• Che rapporti ci sono con il quartiere e il territorio circostante?
Capita che qualcuno del quartiere venga a trovarci, però il Gallaratese è un quartiere difficile, di grande disagio sociale. Noi rendiamo ulteriormente problematica una realtà già estremamente complessa. Non abbiamo però mai riscontrato atteggiamenti di rifiuto nei confronti dei nostri ospiti.
Stiamo sperimentando delle serate di teatro spontaneo aperte alla cittadinanza e almeno una quarantina di persone ha partecipato ogni volta, creando un’interazione fra utenti e ospiti esterni.
Dopo questa chiacchierata, abbiamo potuto visitare il Centro: una grande stanza con banconi per i diversi laboratori, quadri e maschere colorate tutt’in giro; un’altra stanza che funge da sala da pranzo, con un palcoscenico sullo sfondo; un bagno; una cucina; poi forse altri uffici. Tutto incasinato, certo non triste, anche colorato, ma molto vuoto: un ragazzo dipingeva dei fiori fucsia su fondo blu; un signore anziano in carrozzella si intratteneva con due enormi cagnoni (la pet therapy è teorizzata su molti cartelloni appesi al muro). L’assistente sanitario e l’altro educatore si aggiravano indaffarati.
Un’impressione dilagante di tanta buona volontà che non sa a chi dirigersi.