Un Articolo su Repubblica
Inviato: giovedì 24 luglio 2014, 15:35
L'incubo di una malattia che ci tolse l'innocenza
NATALIA ASPESI
Ce li ricordiamo tutti gli amici che nei primi anni Ottanta si ammalavano, il loro sguardo vuoto e disperato, la discesa inarrestabile e violenta lungo il precipizio di un male sconosciuto e perciò spaventoso: colpiva solo loro, i ragazzi più belli, con le professioni più prestigiose, sempre in viaggio verso New York, che le ragazze sognavano inutilmente come fidanzati.
Morivano uno a uno, di un virus che pareva colpire soltanto loro e che subito divenne il cancro dei gay, la peste omosessuale, la punizione divina per il peccato abominevole. Una scelta sessuale che raramente si era dichiarata come gesto libertario e politico, che era stata tranquillamente promiscua, protetta dall'ipocrisia familiare e sociale, divenne un'ignominia, un pericolo pubblico.
Come ai tempi di altre epidemie, la spagnola, la poliomielite, la scienza non sapeva cosa fare: pareva che colpisse soltanto i gay, che si trasmettesse solo per via sessuale tra maschi, si sparsero leggende nere, che poteva contagiare chiunque a ogni contatto, anche solo sedendosi sulla stessa sedia, sfiorando una mano, asciugando una lacrima. I parenti si allontanavano vergognosi e spaventati, gli amici scomparivano, i compagni vivevano nella paura del contagio; gli ospedali rifiutavano gli ammalati, i medici non osavano toccarli.
Ma ci furono pionieri anche in Italia, come Umberto Tirelli che oggi dirige il Dipartimento di Oncologia Medica dell'Istituto Nazionale Tumori di Aviano, che scelsero di dedicarsi a quella che poi venne chiamata Hiv/Aids: una diagnosi di sieropositività allora era una condanna a morte, poi a poco a poco non ci fu grande diva come Elizabeth Taylor che non raccogliesse fondi per la ricerca e i ricoveri, visto che i governi stentavano a farlo.
Da quei primi anni spaventosi, mentre anche le donne si infettavano e morivano, e si infettavano e morivano quelli che facevano uso promiscuo di siringhe per iniettarsi in vena la droga, si ricordano gli orrori degli anatemi religiosi e politici, il terrore del sangue, la solitudine e l'isolamento di chi si ammalava.
Adesso, dall'annuale conferenza mondiale sull'Aids a Melbourne, annunciano che questa trentennale tragica epidemia che sta ancora uccidendo milioni di persone (in certe regioni africane soprattutto giovani donne), forse, FORSE, tra 15 anni sarà debellata nel mondo. Notizia meravigliosa per tutti, come quando si scoprì la penicillina che non cancellò un'altra malattia sessuale, la sifilide, ma impedì di morirne.
Ma allora si potranno bruciare i preservativi, e magari far coppia gay ma non così fedele, (e si sa che le coppie etero non lo sono gran che) e addirittura fare a meno di sposarsi? Si potrà tornare all'amata promiscuità, ad essere se stessi, a divertirsi con un po' più agio e sicurezza, come nei nostri anni Cinquanta, quando l'Aids non esisteva (vedi il libro Quando eravamo omosessuali di Andra Pini)? Secondo il professor Tirelli, in Italia e comunque in Occidente, non è che i costumi gay (e non solo) siano molto cambiati da allora, anche se si marcia per ottenerne gli ovvi diritti civili; si continua a contrarre l'HIV come trent'anni fa (per via sessuale, scomparso quello da siringa infetta) ma l'uso dei farmaci mai innocui (manca ancora un vaccino) impedisce che si sviluppi, perciò sono di molto diminuiti i morti, ma non il contagio. Solo che si sa di potersi curare, quindi non se ne parla più.
La bella notizia vera quindi non è che nel 2030 scomparirà l'Aids, ma che finalmente le Nazioni Unite troveranno il denaro per curare i milioni di infetti dei paesi poveri, impedendone la morte e rallentandone la diffusione.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... ref=search
NATALIA ASPESI
Ce li ricordiamo tutti gli amici che nei primi anni Ottanta si ammalavano, il loro sguardo vuoto e disperato, la discesa inarrestabile e violenta lungo il precipizio di un male sconosciuto e perciò spaventoso: colpiva solo loro, i ragazzi più belli, con le professioni più prestigiose, sempre in viaggio verso New York, che le ragazze sognavano inutilmente come fidanzati.
Morivano uno a uno, di un virus che pareva colpire soltanto loro e che subito divenne il cancro dei gay, la peste omosessuale, la punizione divina per il peccato abominevole. Una scelta sessuale che raramente si era dichiarata come gesto libertario e politico, che era stata tranquillamente promiscua, protetta dall'ipocrisia familiare e sociale, divenne un'ignominia, un pericolo pubblico.
Come ai tempi di altre epidemie, la spagnola, la poliomielite, la scienza non sapeva cosa fare: pareva che colpisse soltanto i gay, che si trasmettesse solo per via sessuale tra maschi, si sparsero leggende nere, che poteva contagiare chiunque a ogni contatto, anche solo sedendosi sulla stessa sedia, sfiorando una mano, asciugando una lacrima. I parenti si allontanavano vergognosi e spaventati, gli amici scomparivano, i compagni vivevano nella paura del contagio; gli ospedali rifiutavano gli ammalati, i medici non osavano toccarli.
Ma ci furono pionieri anche in Italia, come Umberto Tirelli che oggi dirige il Dipartimento di Oncologia Medica dell'Istituto Nazionale Tumori di Aviano, che scelsero di dedicarsi a quella che poi venne chiamata Hiv/Aids: una diagnosi di sieropositività allora era una condanna a morte, poi a poco a poco non ci fu grande diva come Elizabeth Taylor che non raccogliesse fondi per la ricerca e i ricoveri, visto che i governi stentavano a farlo.
Da quei primi anni spaventosi, mentre anche le donne si infettavano e morivano, e si infettavano e morivano quelli che facevano uso promiscuo di siringhe per iniettarsi in vena la droga, si ricordano gli orrori degli anatemi religiosi e politici, il terrore del sangue, la solitudine e l'isolamento di chi si ammalava.
Adesso, dall'annuale conferenza mondiale sull'Aids a Melbourne, annunciano che questa trentennale tragica epidemia che sta ancora uccidendo milioni di persone (in certe regioni africane soprattutto giovani donne), forse, FORSE, tra 15 anni sarà debellata nel mondo. Notizia meravigliosa per tutti, come quando si scoprì la penicillina che non cancellò un'altra malattia sessuale, la sifilide, ma impedì di morirne.
Ma allora si potranno bruciare i preservativi, e magari far coppia gay ma non così fedele, (e si sa che le coppie etero non lo sono gran che) e addirittura fare a meno di sposarsi? Si potrà tornare all'amata promiscuità, ad essere se stessi, a divertirsi con un po' più agio e sicurezza, come nei nostri anni Cinquanta, quando l'Aids non esisteva (vedi il libro Quando eravamo omosessuali di Andra Pini)? Secondo il professor Tirelli, in Italia e comunque in Occidente, non è che i costumi gay (e non solo) siano molto cambiati da allora, anche se si marcia per ottenerne gli ovvi diritti civili; si continua a contrarre l'HIV come trent'anni fa (per via sessuale, scomparso quello da siringa infetta) ma l'uso dei farmaci mai innocui (manca ancora un vaccino) impedisce che si sviluppi, perciò sono di molto diminuiti i morti, ma non il contagio. Solo che si sa di potersi curare, quindi non se ne parla più.
La bella notizia vera quindi non è che nel 2030 scomparirà l'Aids, ma che finalmente le Nazioni Unite troveranno il denaro per curare i milioni di infetti dei paesi poveri, impedendone la morte e rallentandone la diffusione.
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