Un report di 5 anni e mezzo di vita
Inviato: giovedì 12 marzo 2020, 20:38
Sono circa 5 anni e mezzo dalla diagnosi di HIV e ancora adesso se penso di dire di essere HIV positivo mi sembra di immaginare qualcosa di surreale. Ho difficoltà persino a scriverlo.
Feci il test in un laboratorio privato convenzionato di Roma, un sabato mattina che non avevo niente da fare e avevo la sensazione che qualcosa non andasse a livello di salute, la classica ipocondria che sparisce dopo che fai analisi del sangue o una visita dal medico. Entrai a fare il test e mi dissero di riprendere i risultati nel primo pomeriggio. Andai tranquillo, godendomi la passeggiata in quella splendida giornata e, al contrario delle volte precedenti in cui la rceptionist mi consegnava la busta col risultato salutandomi, stavolta mi disse di aspettare perchè il medico voleva parlarmi. Mi si gelò il sangue, ricordo ancora perfettamente il sudore freddo nelle mani. Il medico mi diede la diagnosi ma rimasi impassibile, e gli chiesi con tranquillità quale fosse l'iter da intraprendere. Rimase colpito dalla mia impassibilità ma credo fosse contento di ciò, un disperato in meno da consolare.
Uscii e guardai il cielo e mi guardai intorno: tutto era esattamento com'era quando ero entrato in ambulatorio, nulla era cambiato e questo mi consolò. Tornai in macchina a casa, con addosso una strana sensazione, molto similile alla felicità: alla fine non dovevo più aver paura di prendere l'hiv perchè l'avevo già preso. E questa idea malsana consolidò la mia fase di non accettazione, che non si esplicò come in alcuni con la negazione dell'hiv, lo conoscevo benissimo da tutti i punti di vista, clinico, molecolare, sociale, ma piuttosto come una negazione del fatto che avrei potuto tranquillamente sconfiggere definitivamente la paura di prendere l'hiv senza prendermelo.
C'era dell'altro. Come ogni omosessuale che si rispetti, avevo avuto molto tempo per pensare a cosa avrei fatto se avessi mai ricevuto una diagnosi del genere. Alcuni dicono che si suiciderebbero, altri non saprebbero cosa fare. Io mi sono sempre detto: se avessi una diagnosi del genere abbandonerei quello che faccio e mi dedicherei a quello che voglio fare realmente. E ancora, non avevo capito che avrei potuto fare quello che volevo anche senza una diagnosi del genere.
Non ho mai cercato l'hiv. Ancora oggi non riesco a comprendere come abbia potuto prenderlo, da chi. Ho qualche dubbio su una o due persone, e probabilmente sono proprio loro. Un eccesso di ormoni, la perdita del controllo, la probabile bugia di un partner occasionale a cui chiedi se è venuto dentro e ti risponde "no, I'm not mad", ma non si può tornare indietro.
La dottoressa dello Spallanzani mi disse che non credeva fossi io la nuova diagnosi, mi aveva visto troppo tranquillo. E rimase 1 ora con me a parlarmi. Aveva capito benissimo che stavo negando a me stesso la "gravità" della mia diagnosi, e cercò di farmi capire che un giorno avrei dovuto sfogarmi, sbatterci la faccia contro, per poter andare avanti. Ma non lo avrei fatto a breve, e non l'ho amcora fatto...
Da lì a poco tornai alla salute di un tempo. Mi sentivo bene, forte. Il linfonodo enorme che avevo sul collo si sgonfiò da solo. Non presi più influenza, raffreddore, pur non essendo in terapia. Una sorta di effetto placebo malsano. Andai in giro scopando come un matto, ma sempre protetto, perchè razionalmente sapevo benissimo di avere hiv.
La svolta fu qualche settimana dopo la diagnosi, quando mi licenziai dal lavoro e mi iscrissi di nuovo all'università per completare la magistrale che avevo lasciato, anche se avevo 30 anni, per inseguire il mio sogno, quello che avrei voluto fare realmente nella vita.
Iniziai la terapia 1 anno dopo, quando cominciai ad accusare febbricola dovuta ad un rialzo della viremia che era scesa da decine di migliaia di copie a poche centinaia per poi risalire a 40 o 50 mila. E sono stato ancora meglio dal punto di vista fisico, stavolta realmente, non era più un effetto placebo, un qualcosa di natura psico-somatica, ma l'efficacia della terapia anti-retrovirale. Pensavo che l'immagine di me che prendo la mia prima pasticca mi sarebbe rimasta impressa per sempre, ma l'ho dimenticata.
Da allora sono andato avanti correndo, ho terminato l'università, il dottorato di ricerca, e mi sono persono trasferito per lavoro lasciamdo la città che tanto ho amato ma che tanto mi ha tolto.
Pago lo scotto di tutto questo: 5 anni e mezzo in cui non sono riuscito a versare neanche una lacrima. 5 anni e mezzo di ciniscmo, di buttare tutto in caciara e sullo scherzo, per attenuare una realtà che potenzialmente potrebbe distruggermi psicologicamente. 5 anni e mezzo durante i quali, ad una ad una, ho eliminato dalla mia vita qualsiasi relazione sociale, ed abbandonato qualsiasi cosa mi facesse pensare troppo all'hiv o che reputavo incompatibile con me, il mio lavoro e la mia apparente calma.
Penso all'hiv ogni tanto, con malinconia nei confronti di una passato che mi sembra ancora molto vicino in cui non l'avevo. Ci penso quando magari vorrei provare a conoscere qualcuno per qualcosa di serio, e desisto in partenza. Ci penso in situazioni come quella che stiamo vivendo a causa del coronavirus, con il terrore che qualcosa possa andare storto. Ci penso quando mi accorgo di aver dimenticato di prendere una pasticca, e in alcune circostanze lavorative.
E ci stavo pensando in questo momento quando, nella solitudine della quarantena, in cui sento una necessità mai avvertita prima di un contatto fisico con le persone, ho deciso di sfogarmi scrivendo di quello che ho vissuto io in questo periodo di vita.
Feci il test in un laboratorio privato convenzionato di Roma, un sabato mattina che non avevo niente da fare e avevo la sensazione che qualcosa non andasse a livello di salute, la classica ipocondria che sparisce dopo che fai analisi del sangue o una visita dal medico. Entrai a fare il test e mi dissero di riprendere i risultati nel primo pomeriggio. Andai tranquillo, godendomi la passeggiata in quella splendida giornata e, al contrario delle volte precedenti in cui la rceptionist mi consegnava la busta col risultato salutandomi, stavolta mi disse di aspettare perchè il medico voleva parlarmi. Mi si gelò il sangue, ricordo ancora perfettamente il sudore freddo nelle mani. Il medico mi diede la diagnosi ma rimasi impassibile, e gli chiesi con tranquillità quale fosse l'iter da intraprendere. Rimase colpito dalla mia impassibilità ma credo fosse contento di ciò, un disperato in meno da consolare.
Uscii e guardai il cielo e mi guardai intorno: tutto era esattamento com'era quando ero entrato in ambulatorio, nulla era cambiato e questo mi consolò. Tornai in macchina a casa, con addosso una strana sensazione, molto similile alla felicità: alla fine non dovevo più aver paura di prendere l'hiv perchè l'avevo già preso. E questa idea malsana consolidò la mia fase di non accettazione, che non si esplicò come in alcuni con la negazione dell'hiv, lo conoscevo benissimo da tutti i punti di vista, clinico, molecolare, sociale, ma piuttosto come una negazione del fatto che avrei potuto tranquillamente sconfiggere definitivamente la paura di prendere l'hiv senza prendermelo.
C'era dell'altro. Come ogni omosessuale che si rispetti, avevo avuto molto tempo per pensare a cosa avrei fatto se avessi mai ricevuto una diagnosi del genere. Alcuni dicono che si suiciderebbero, altri non saprebbero cosa fare. Io mi sono sempre detto: se avessi una diagnosi del genere abbandonerei quello che faccio e mi dedicherei a quello che voglio fare realmente. E ancora, non avevo capito che avrei potuto fare quello che volevo anche senza una diagnosi del genere.
Non ho mai cercato l'hiv. Ancora oggi non riesco a comprendere come abbia potuto prenderlo, da chi. Ho qualche dubbio su una o due persone, e probabilmente sono proprio loro. Un eccesso di ormoni, la perdita del controllo, la probabile bugia di un partner occasionale a cui chiedi se è venuto dentro e ti risponde "no, I'm not mad", ma non si può tornare indietro.
La dottoressa dello Spallanzani mi disse che non credeva fossi io la nuova diagnosi, mi aveva visto troppo tranquillo. E rimase 1 ora con me a parlarmi. Aveva capito benissimo che stavo negando a me stesso la "gravità" della mia diagnosi, e cercò di farmi capire che un giorno avrei dovuto sfogarmi, sbatterci la faccia contro, per poter andare avanti. Ma non lo avrei fatto a breve, e non l'ho amcora fatto...
Da lì a poco tornai alla salute di un tempo. Mi sentivo bene, forte. Il linfonodo enorme che avevo sul collo si sgonfiò da solo. Non presi più influenza, raffreddore, pur non essendo in terapia. Una sorta di effetto placebo malsano. Andai in giro scopando come un matto, ma sempre protetto, perchè razionalmente sapevo benissimo di avere hiv.
La svolta fu qualche settimana dopo la diagnosi, quando mi licenziai dal lavoro e mi iscrissi di nuovo all'università per completare la magistrale che avevo lasciato, anche se avevo 30 anni, per inseguire il mio sogno, quello che avrei voluto fare realmente nella vita.
Iniziai la terapia 1 anno dopo, quando cominciai ad accusare febbricola dovuta ad un rialzo della viremia che era scesa da decine di migliaia di copie a poche centinaia per poi risalire a 40 o 50 mila. E sono stato ancora meglio dal punto di vista fisico, stavolta realmente, non era più un effetto placebo, un qualcosa di natura psico-somatica, ma l'efficacia della terapia anti-retrovirale. Pensavo che l'immagine di me che prendo la mia prima pasticca mi sarebbe rimasta impressa per sempre, ma l'ho dimenticata.
Da allora sono andato avanti correndo, ho terminato l'università, il dottorato di ricerca, e mi sono persono trasferito per lavoro lasciamdo la città che tanto ho amato ma che tanto mi ha tolto.
Pago lo scotto di tutto questo: 5 anni e mezzo in cui non sono riuscito a versare neanche una lacrima. 5 anni e mezzo di ciniscmo, di buttare tutto in caciara e sullo scherzo, per attenuare una realtà che potenzialmente potrebbe distruggermi psicologicamente. 5 anni e mezzo durante i quali, ad una ad una, ho eliminato dalla mia vita qualsiasi relazione sociale, ed abbandonato qualsiasi cosa mi facesse pensare troppo all'hiv o che reputavo incompatibile con me, il mio lavoro e la mia apparente calma.
Penso all'hiv ogni tanto, con malinconia nei confronti di una passato che mi sembra ancora molto vicino in cui non l'avevo. Ci penso quando magari vorrei provare a conoscere qualcuno per qualcosa di serio, e desisto in partenza. Ci penso in situazioni come quella che stiamo vivendo a causa del coronavirus, con il terrore che qualcosa possa andare storto. Ci penso quando mi accorgo di aver dimenticato di prendere una pasticca, e in alcune circostanze lavorative.
E ci stavo pensando in questo momento quando, nella solitudine della quarantena, in cui sento una necessità mai avvertita prima di un contatto fisico con le persone, ho deciso di sfogarmi scrivendo di quello che ho vissuto io in questo periodo di vita.