Entinostat: un inbitore selettivo delle iston-deacetilasi molto efficace contro la latenza di HIV
Conosciamo Kathleen Collins soprattutto per i suoi lavori volti a stabilire la presenza e le caratteristiche di un reservoir di HIV latente nelle cellule staminali ematopoietiche. Sono state ricerche i primi tempi molto controverse, oggi direi accettate dalla maggior parte dei ricercatori, e che hanno permesso di caratterizzare un altro dei reservoir minori, diversi da quelli nei CD4 quiescenti, che sono il reservoir più esteso e contro il quale si sono concentrati in passato la maggior parte degli sforzi di eradicazione. Collins sosteneva che distruggere il reservoir dei CD4 senza intervenire su quella fonte perpetua di nuove cellule latentemente infette che possono essere le cellule staminali/progenitrici era fare un lavoro a metà. Così come Janice Clements ammoniva che attaccare il reservoir dei CD4 nel sangue senza preoccuparsi di quel che può accadere nel cervello può essere fonte di guai. E c'erano altri - Guido Poli, ad esempio - che dicevano che ci sono cellule come i macrofagi che possono costituire un reservoir e che possono richiedere interventi diversi da quelli che potrebbero funzionare con i CD4. Queste voci fuori dal coro avevano molte ragioni dalla loro parte e in questi anni stiamo vedendo ricerche sempre più intense rivolte ai reservoir diversi dai CD4.
Oggi Collins e collaboratori della University of Michigan, Ann Arbor, pubblicano sul Journal of Virology un lavoro molto interessante - Class 1-selective histone deacetylase inhibitors enhance HIV latency reversal while preserving the activity of HDAC isoforms necessary for maximal HIV gene expression - in cui utilizzano, oltre a CD4 primari latentemente infetti, prelevati da persone con HIV controllato dalla terapia antiretrovirale, anche un modello di latenza creato da loro e basato su cellule staminali.
Sui reservoir di questi modelli cellulari Collins ha studiato gli effetti dell'entinostat (noto anche in passato come SNDX-275 e MS-275), un inibitore delle HDAC, ma diverso da quelli che abbiamo visto finora e che sono già stati testati - con risultati assai poco incoraggianti - in diversi trial clinici.
Se vorinostat, panobinostat e romidepsina, infatti, sono pan-inibitori, che si rivolgono a bloccare tutte le iston-deacetilasi di classe I e II, l'entinostat è un inibitore selettivo, che blocca soltanto le HDAC 1, 2 e 3 (di classe I), con l'enorme vantaggio di non sparare nel mucchio, poter essere usato a dosaggi più bassi e avere quindi molti meno effetti collaterali. Un altro vantaggio non da poco è che se ne conosce bene il profilo di sicurezza e di tossicità, poiché è in fase molto avanzata di sperimentazione contro diversi tipi di cancro per i suoi effetti su cellule, come certe cellule della linea mieloide e i linfociti Treg, che hanno caratteristiche immuno-soppressive. Ha anche un'emivita molto lunga, che permette una somministrazione (orale) settimanale.
Collins non si è svegliata una mattina e ha detto "sai che faccio oggi? sperimento sull'entinostat". Sì è invece, come sempre, inserita in una tradizione di ricerca. Una tradizione che possiamo far risalire a un bel lavoro della Merck sul Journal of Virology del 2009, in cui Daria Hazuda e David Margolis avevano dimostrato in sostanza due cose: che non tutte le 11 HDAC regolano la trascrizione dell'HIV latente nei CD4 quiescenti, ma quelle che davvero sono in gioco in questo processo sono la 1, la 2 e la 3; e che è possibile inibirle con dei farmaci specifici, così che un inibitore selettivo sul genere dell'entinostat, che blocca un limitato numero di HDAC di classe I, può offrire un approccio più mirato alla distruzione del reservoir latente, senza la grande tossicità che può essere indotta da un'inibizione globale delle HDAC.
Era una grande idea e Andrea Savarino la mise subito alla prova, facendo però un passo in più, perché è vero che nel 2009 eravamo solo agli inizi delle sperimentazioni di Margolis con il vorinostat e tante cose ancora non si sapevano, ma intervenire soltanto nella fase di "shock", aspettandosi che il virus riattivato facesse da solo il necessario lavoro di ammazzare le cellule infette, già allora pareva a Savarino una strategia poco realistica. Quindi sperimentò insieme l'entinostat con la butionina sulfossimina, in uno dei primi modelli di "shock and kill 2.0" a mia conoscenza.
In un articolo che pubblicò, sempre nel 2009, su Retrovirology dimostrò su linee cellulari che l'inibizione selettiva delle HDAC di classe I, con dosaggi di farmaco tollerabili nella clinica, da sola non era sufficiente a riattivare abbastanza virus latente da distruggere le cellule quiescenti, ma che se all'entinostat si aggiungeva la BSO, che è un inibitore della sintesi del glutatione che crea un ambiente pro-ossidativo che stimola la trascrizione di HIV, allora si poteva usare meno entinostat e ottenere una rapida morte delle cellule infette.
Poi Savarino vide impazzire la viremia di un paio di macachi cui aveva somministrato il vorinostat, quindi lasciò perdere le ricerche sugli HDACi e si rivolse all'auranofin.
La Merck invece, che nel frattempo aveva cominciato a pompare il vorinostat oltre ogni limite di decenza, continuò anche a lavorare - sempre in vitro - sull'entinostat, tanto che Sharon Lewin nel 2013 pubblicò su AIDS un lavoro - a differenza di quelli precedenti fatto sia su linee cellulari, sia su cellule primarie di persone in terapia soppressiva - in cui dimostrava che l'inibizione selettiva delle HDAC mediante entinostat (con dosaggi nano- e micromolari a seconda del modello) riattivava il virus latente meglio che quella indiscriminata del vorinostat e del panobinostat e lo faceva con molte minori tossicità.
Eppure continuò con le sue sperimentazioni cliniche con il vorinostat.
Facciamo un salto di qualche anno e arriviamo al lavoro di oggi di Kathleen Collins. In questa ricerca, Collins e collaboratori hanno costruito sulle conoscenze acquisite in passato e hanno fatto diverse cose nuove:
- 1. Hanno preso atto che i lavori precedenti soffrivano di alcuni limiti: usavano modelli di latenza che non ricapitolavano in modo preciso gli effetti delle sostanze anti-latenza sui CD4 delle persone in terapia soppressiva; inoltre si concentravano sulla frequenza dei provirus riattivati più che sulla potenza dell'espressione genetica virale indotta, sulla produzione di nuovi virioni e sulla distruzione delle cellule infette. Infine non avevano mai testato l'efficacia degli interventi anti-latenza su cellule staminali/progenitrici. Quindi qui i modelli di latenza utilizzati sono stati - come detto - CD4 prelevati a persone con infezione ben controllata dalla ART e cellule staminali infettate e poi mandate in latenza.
2. Hanno dimostrato che l'entinostat riesce a indurre una maggior produzione di geni virali (Env) per cellula infetta (che sia staminale o CD4) rispetto ai pan-HDACi (vorinostat, panobinostat e romidepsina). E hanno visto che questo avviene a concentrazioni diverse e che aumentare il dosaggio dei pan-HDACi non li rende comunque più efficaci.
3. Hanno dimostrato che, se si somministrano insieme un pan-HDACi e l'entinostat, il primo inibisce l'effetto del secondo - probabilmente, gli effetti inibitori ad ampio spettro dei pan-HDACi influiscono negativamente sull'espressione dei geni del virus, cosa che non accade con l'inibizione selettiva delle HDAC. Questo è un gran brutto colpo per il vorinostat.
4. Hanno dimostrato che le combinazioni dei pan-HDACi riducono l'attività dell'NF-kB e dell'Hsp90, due fattori cellulari cruciali perché si abbia una forte espressione di proteine virali. Anche questo è un colpo non da poco per il vorinostat.
5. Hanno poi dimostrato due cose molto positive e molto importanti:
- a. che combinando insieme un inibitore selettivo delle HDAC di classe I come l'entinostat e un agonista della PKC come la briostatina-1 si obbligava il virus latente, sia nei CD4 sia nelle staminali, a riattivarsi e a trascriversi a dei livelli molto più alti che con le due sostanze usate singolarmente e che questo comportava una grande produzione di nuovi virioni (mentre gli effetti della combinazione di entinostat e briostatina-1 venivano vanificati se si aggiungeva un pan-HDACi);
b. che la quantità di proteine virali prodotte grazie all'uso combinato di queste due sostanze anti-latenza era tale da portare alla morte delle cellule infette.
Questo secondo risultato conferma quello che si sta ipotizzando da anni: che se si riesce a far trascrivere abbastanza virus latente allora, anche se le reazioni citolitiche dei CD8 sono scarsine e mal mirate e le NK fanno quel che possono ma non abbastanza, gli effetti citopatici del virus sono davvero sufficienti a distruggere le cellule infette. - a. che combinando insieme un inibitore selettivo delle HDAC di classe I come l'entinostat e un agonista della PKC come la briostatina-1 si obbligava il virus latente, sia nei CD4 sia nelle staminali, a riattivarsi e a trascriversi a dei livelli molto più alti che con le due sostanze usate singolarmente e che questo comportava una grande produzione di nuovi virioni (mentre gli effetti della combinazione di entinostat e briostatina-1 venivano vanificati se si aggiungeva un pan-HDACi);
Insomma, quello che ci dice questo bel lavoro della Collins è che c'è una combinazione di sostanze anti-latenza che può essere somministrata usando dosaggi dei due farmaci bassi abbastanza da non dare troppe tossicità a livello clinico, ma comunque sufficienti a fare insieme da "shock" e da "kill". E questo non solo nei CD4, ma anche nelle staminali latentemente infette.
Una conferma importante all'ipotesi che la quantità di virus riattivato conta.
Una specie di Sacro Graal dello "shock and kill".
Adesso la domanda è: che cosa aspettano a far partire un trial clinico?!