Ho accennato l’altro giorno al fatto che è uscito un nuovo lavoro sulla distruzione del CCR5 in staminali ematopoietiche trapiantate in topi che, a detta dei suoi autori – Erica Schleifman e Peter Glaser della Yale University - pare sia più sicuro delle nucleasi a dita di zinco (
La proliferazione omeostatica non riattiva bene il reservoir).
Ne parlo qui, senza stare ad aprire un thread apposito, perché non soltanto si tratta di un lavoro ancora nelle sue fasi iniziali, ma devo anche ammettere che mi ha lasciato assai perplessa, non tanto per la metodica usata, che è complicatissima e della quale potrei non aver capito nulla, quanto per alcune affermazioni disseminate nell’articolo.
I lavori pubblicati, in realtà, sono due: uno sulla distruzione, mediante acidi peptidonucleici (PNA), del CCR5 in diversi tipi di cellule che lo esprimono (
Targeted Disruption of the CCR5 Gene in Human Hematopoietic Stem Cells Stimulated by Peptide Nucleic Acids); e uno su un modo di trasportare questi PNA verso il loro bersaglio utilizzando nanoparticelle biodegradabili e non vettori virali (
Nanoparticles Deliver Triplex-forming PNAs for Site-specific Genomic Recombination in CD34+ Human Hematopoietic Progenitors). Pur su riviste differenti, questi lavori escono insieme, firmati più o meno dalle stesse persone; TUTTAVIA, per portare i PNA a distruggere il CCR5 del primo lavoro NON sono state usate le nanoparticelle descritte nel secondo. Prima stranezza. Vabbè, dipenderà da qualche misteriosa coincidenza di tempi editoriali, se non dalla necessità accademica di aumentare a dismisura il numero delle pubblicazioni.
Ma le stranezze non finiscono qui.
Perché raccontare di questi lavori nel thread della Cannon? Perché la cosa più interessante del primo articolo è che è stato fatto un esperimento *simile* a quello della nostra Paula: sono state modificate delle staminali ematopoietiche umane e poi sono state trapiantate in topi umanizzati.
Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire brevemente che cosa sono questi PNA.
Gli acidi peptidonucleici sono una classe di molecole non naturali, ma di sintesi, che hanno struttura simile a quella del DNA e dell’RNA e hanno la capacità di legare il DNA con una forza superiore a quella fra i due filamenti del DNA. Vengono quindi utilizzati per costruire delle molecole in grado di legare e inibire il DNA, alterando l’espressione di un gene (
cfr. Wiki).
Schleifman e Glaser hanno testato alcuni PNA opportunamente scelti per legarsi al gene che codifica per il CCR5, e l’hanno fatto su tre tipi di cellule: le THP-1, che sono una linea di cellule leucemiche umane, che esprimono il CCR5 e possono essere infettate dall’HIV, le K562, un’altra linea cellulare umana e delle staminali ematopoietiche CD34+.
Mediante trasfezione (cioè il processo di introduzione di materiale biologico esogeno nelle cellule), e precisamente mediante nucleofezione, che è un metodo di trasfezione che permette il transfer di acidi nucleici entro le cellule, hanno alterato il CCR5 con i PNA e, misurando il successo dell’operazione con metodi diversi (a livello di DNA, di RNA e di proteine), il massimo che sono riusciti ad ottenere è stata la modificazione di un allele nel
2,46% dei casi (modificazioni bialleliche, che rendono le cellule CCR5-/-, non ne hanno trovate).
Poca roba davvero, se confrontata alle ZFN.
Perché, allora, i ricercatori di Yale dicono che il loro metodo è migliore di quello di Sangamo? Perché sono andati a controllare gli
effetti “off-target”, in particolare sul CCR2, che è il gene più “simile” al CCR5 ed è dunque quello più facilmente modificato quando si sbaglia bersaglio, e praticamente non ne hanno trovati (
0,057%): la frequenza degli “off-target” è stata di
43 volte più bassa rispetto alla frequenza di modificazione del CCR5 (2,46%, appunto).
Usando le ZFN, invece, June e Sangamo (
Establishment of HIV-1 resistance in CD4+ T cells by genome editing using zinc-finger nucleases) avevano mostrato una frequenza di “off-target” del
5,39%, a fronte di una frequenza del
35,6% di modificazioni del CCR5 (quindi solo 6 volte minore).
MA: era il 2008. L’estate scorsa sono usciti due lavori completamente diversi e indipendenti da Sangamo (di cui abbiamo parlato nel thread
[STUDI] Sangamo: CD4 e staminali resi CCR5- mediante ZFN) dai quali emerge che gli “off-target” causati dalle nucleasi a dita di zinco sono molto, ma molto di meno. Stando a quanto dichiarato da Gregory in occasione della pubblicazione di quei lavori, con le concentrazioni usate da Sangamo si rischia di sbagliare bersaglio 1 volta su 20.000, quindi la frequenza crolla a
0,00005. Trascurabile, credo.
Se le cose stanno davvero così, mi pare che venga a cadere una delle principali ragioni per preferire i PNA alle ZFN.
Tralascio gli esperimenti fatti da Schleifman e Glaser per infettare con l’HIV le cellule modificate, perché hanno ottenuto il risultato che già conosciamo: se si distrugge il CCR5, le cellule diventano resistenti all’HIV.
Passo alla questione staminali, perché qui ci sono due particolari che mi lasciano più che perplessa.
Schleifman e Glaser hanno, come detto, modificato geneticamente anche delle staminali ematopoietiche umane. Ma la loro premessa è la seguente:
- “in caso di applicazione clinica, la modificazione ex vivo delle cellule staminali ematopoietiche di pazienti con HIV-1 potrebbe fornire un metodo per creare una fonte rinnovabile di cellule immunitarie resistenti al virus. Da notare che è stato dimostrato che le CD34+ umane rimangono non infettate anche in pazienti infetti da HIV-1 [Importantly, human CD34+ HSCs have been shown to remain uninfected even in HIV-1-infected patients].”
A parte l'incongruità di scrivere che le CD34 rimangono non infettate ANCHE (o *PERFINO*!!) in pazienti HIV+ (di chi altro si sta parlando?!), questi signori citano, a riprova di questa bestialità, un articolo di Shen e altri del 1999:
Intrinsic Human Immunodeficiency Virus Type 1 Resistance of Hematopoietic Stem Cells Despite Coreceptor Expression, in cui si *dimostra* che le staminali sono un “santuario” resistente all’HIV. Mai sentito parlare di Kathleen Collins?! Il mondo è andato avanti negli ultimi dieci anni, ma a Yale non se ne sono accorti?!
Non è ancora finita: hanno modificato delle staminali con i loro bravi acidi peptidonucleici, le hanno trapiantate in topi umanizzati, hanno visto che attecchivano e
… si sono fermati lì!
Perché non hanno provato a infettare i topi?
Eppure la Collins non l’hanno letta, ma la Cannon sì, perché la citano in bibliografia. Ci voleva molto, una volta che i topi erano lì vivi e vegeti e con le staminali funzionanti a inoculargli il virus e a vedere come si comportava il sistema immunitario CCR5-?
MISTERO!
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L’altra ricerca uscita da questo gruppo di lavoro riguarda la sostituzione dei vettori virali con nanoparticelle di PLGA (acido polilattico-coglicolico), un copolimero derivato dall’acido glicolico, che ha l’utile proprietà di essere biodegradabile: usare il PGLA invece di un virus per trasportare le sostanze che devono modificare un gene in una cellula potrebbe consentire di evitare quei rischi di mutagenesi di cui abbiamo parlato tante volte.
E' la prima volta che il PLGA viene usato per trasportare i PNA all'interno delle cellule, ma questo acido è già in uso come vettore di farmaci negli esseri umani, per esempio viene usato per trasportare chemioterapici nella cura del cancro alla prostata.
In questo lavoro, il PLGA è stato usato per modificare delle staminali/progenitrici ematopoietiche umane mediante PNA e ha dimostrato una bassa tossicità. Il prossimo passo sarà il trapianto di staminali modificate in questo modo in modelli animali per vedere se attecchiscono.
Siamo agli inizi, ma le nanoparticelle stanno diventando di gran moda: per esempio, noi ne abbiamo parlato la primavera scorsa, perché si sta pensando di usare nanoparticelle lipidiche (quindi biodegradabili) per veicolare la briostatina in funzione di eradicazione (
[STUDI] La briostatina, candidata per “risvegliare” l’HIV).