Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellule

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
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Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellule

Messaggio da Dora » domenica 21 agosto 2011, 23:18

L’HIV segue due vie di infezione: una – quella cui si fa in genere riferimento – si verifica quando il virus circola libero nel flusso sanguigno ed entra in una cellula; l’altra – conosciuta già da moltissimi anni, ma meno studiata – avviene mediante trasferimento del virus da una cellula a un’altra.

Qualcuno ricorderà che nel 2009 furono pubblicati dal laboratorio di Benjamin Chen alla Mount Sinai School of Medicine di New York dei filmati davvero incredibili sulla diffusione dell’HIV da cellula a cellula mediante la costruzione di una sorta di “collegamenti” che, per la loro somiglianza con quelli cerebrali fra i neuroni, vengono chiamati sinapsi virali: quando una cellula infetta si trova vicina ad una sana, una proteina virale si aggancia al citoscheletro di quest’ultima e consente al virus di passare all’interno, dove poi obbligherà la cellula ospite a produrre nuove copie di sé (Quantitative 3D Video Microscopy of HIV Transfer Across T Cell Virological Synapses).

In vitro Hübner e Chen avevano dimostrato che questa via di infezione è migliaia di volte più efficiente rispetto a quella del virus libero che entra nelle cellule.

Un paio di video sono visibili qui:

Nel primo video, la cellula bianca è quella già infettata con HIV. Si vede un linfocita T attaccato da questa cellula. La macchia rotonda luminosa è la sinapsi virale fra le cellule. Si vedono delle macchioline bianche che se ne fluttuano via, a partire dalla sinapsi, dentro l'altra cellula: è l'HIV che passa da una cellula all'altra.




Il secondo video è una ricostruzione in 3D: il microscopio ha scattato immagini delle cellule in 2D e queste sono state ricostruite per formare un'immagine tridimensionale. Il video è dunque una ricostruzione dell'immagine fatta ruotare. La cellula infetta è quella resa verde dalla Green Fluorescent Protein. Le macchioline rotonde verdi sono le sinapsi virali. Le cellule rosse sono quelle che vengono infettate.





Questa è l’immagine che fece il giro del mondo un paio d’anni fa:

Immagine


Nel 2010 gli inglesi Nicola Martin e Quentin Sattentau sono riusciti a dimostrare che il trasferimento dell’HIV da cellula infetta a cellula sana mediato dalle sinapsi virali è davvero più efficiente rispetto alla diffusione da virus libero a cellula, ed è relativamente resistente agli anticorpi monoclonali neutralizzanti, ma è invece piuttosto sensibile agli inibitori dell’ingresso: può quindi essere inibita con la somministrazione di queste sostanze, alcune delle quali hanno come target le proteine gp120 o gp41 sulla superficie del virus, mentre altre si legano ai CD4 o ai corecettori CCR5 o CXCR4 sulla superficie dei linfociti T (cfr. Virological Synapse-Mediated Spread of Human Immunodeficiency Virus Type 1 between T Cells Is Sensitive to Entry Inhibition).

Tutta questa lunga premessa per arrivare a parlare di una letterina di 3 pagine appena pubblicata su Nature da David Baltimore e dal suo team al Caltech di Pasadena, in collaborazione con il Weizman Institute di Rehovot: Cell-to-cell spread of HIV permits ongoing replication despite antiretroviral therapy.

Perché è importante? Perché Baltimore presenta un modello di replicazione virale attiva durante la HAART, che porta a ipotizzare che la persistenza dei reservoir, pur in presenza di una terapia che abbia successo nell’azzerare la viremia, possa essere spiegata da una infezione che si propaga da una cellula all’altra e che si fa beffe della normale concentrazione dei farmaci. Questo potrebbe quindi spiegare perché la HAART non riesce ad eradicare l’infezione.

I due meccanismi – NON mutualmente esclusivi - proposti per spiegare il mantenimento di un reservoir pur in presenza di terapia antiretrovirale sono la latenza e la replicazione in corso.
Si è però visto che la trasmissione diretta del virus da una cellula all’altra causa un’infezione efficiente, che riesce ad aggirare la perdita di virus libero che si verifica mentre l’HIV circola nel flusso sanguigno in cerca di cellule da infettare. Anche se si sa che l’infezione da una cellula all’altra non protegge completamente il virus dagli effetti degli antiretrovirali, Baltimore ha osservato che questa forma di trasmissione è comunque meno sensibile ai farmaci rispetto all’altra e ha costruito un modello probabilistico dell’infezione, che è in grado di spiegare questo risultato.

Senza andare troppo nei particolari: ha infettato delle cellule-target sia mediante HIV libero, sia mediante altre cellule infette e l’ha fatto sia in assenza di farmaci, sia in presenza di concentrazioni crescenti di tenofovir o di efavirenz. Ha poi calcolato il rapporto fra il numero di cellule-target infettate in presenza del farmaco e il numero di quelle infettate in assenza di ARV. Quello che ha osservato sono delle risposte straordinariamente diverse ai farmaci quando l’infezione aveva avuto inizio da un cellula rispetto a quando aveva avuto inizio da virus libero. In quest’ultimo caso, quel rapporto crollava in funzione delle maggiori concentrazioni dei farmaci usati. Invece, la curva scendeva molto lentamente quando l’infezione avveniva tramite cellule infette: i valori del rapporto erano di un’ordine di grandezza più grandi e questo è stato spiegato usando un semplice modello probabilistico, che prevede che il numero medio di virus trasmessi direttamente da un cellula all’altra sia molto grande. Cioè: INFEZIONI MULTIPLE PER OGNI CELLULA PORTANO A UNA RIDOTTA SENSIBILITÀ AI FARMACI, pur in assenza di mutazioni resistenti a quei farmaci.

Ne è stato dedotto che il diminuire dell’infezione osservato nell’infezione diretta cellula – cellula ad alte concentrazioni di farmaci è insufficiente a fermare il propagarsi dell’infezione: se si dimostrasse (*) che la diffusione da una cellula all’altra ha le stesse proprietà anche in vivo, questo, oltre a causare attivazione immunitaria e quindi infiammazione, potrebbe spiegare certi fallimenti terapeutici e soprattutto potrebbe dar ragione della creazione di un reservoir di replicazione attiva in comparti quali il tessuto linfatico, dove in genere avviene questo tipo di trasmissione, pur in presenza di quantità di farmaci che bloccano l’infezione causata dal virus libero.

I dati presentati in questo lavoro indicano che la diffusione da una cellula all’altra è probabilmente una fonte di replicazione in corso intermittente, pur in presenza di HAART, e questa è una conseguenza del passaggio dell’infezione da cellula a cellula, che trasmette tanti virus in eccesso rispetto a quanto è richiesto per infettare una cellula in assenza di ARV. Questa trasmissione così ampia diminuisce la probabilità che ogni virus trasmesso venga inibito dai farmaci, pertanto diminuisce di molto l’efficacia della terapia.

Questo, in sintesi, il modello Sigal – Baltimore:

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Perché è importante capire se la replicazione da una cellula all’altra causa – in vivo - un reservoir? Perché si tratterebbe di un reservoir diverso da un reservoir di virus latente e dovrebbe essere aggredito in modo differente. Si ritiene che il virus in stato di latenza potrebbe essere eradicato se lo si attivasse e lo si forzasse a uscire dalle cellule, per poi spazzarlo via grazie alla HAART, che gli impedisce di entrare in nuove cellule. Ma questo non funzionerebbe nel caso di un virus che nelle cellule ci entra comunque, facendosi beffe dei farmaci.



(*) Nota del 23/12/2011: si temeva che ci sarebbe voluto molto tempo per una dimostrazione sperimentale del modello matematico di Sigal-Baltimore. Ma non è stato così: questa dimostrazione è stata portata da Schacker, Stevenson e Fletcher al workshop di St Martin.
Si veda qui http://www.hivforum.info/forum/viewtopi ... 8686#p8686 e qui http://www.hivforum.info/forum/viewtopi ... 8794#p8794.



Dora
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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da Dora » martedì 23 ottobre 2012, 14:18

Lo scorso giugno, Marc Permanyer insieme ad altri colleghi spagnoli pubblicò sul Journal of Virology un articolo – Antiretroviral agents effectively block HIV replication after cell to cell transfer – in cui criticava l’idea di Sigal e Baltimore che la trasmissione del virus da una cellula all’altra sia un meccanismo che aiuta il virus a sfuggire all’azione degli antiretrovirali e che può quindi spiegare la persistenza dell’HIV in persone in terapia. Si sosteneva infatti che, se si misurano in modo corretto i loro effetti, i farmaci sono in grado di bloccare sia il DNA provirale, sia la replicazione del virus che si ha quando la trasmissione è da una cellula all’altra, esattamente con la stessa efficacia che si riscontra contro il virus libero, al di fuori delle cellule.

Si trattava di un lavoro estremamente tecnico, in cui tutto si giocava sui metodi di indagine impiegati, così avevo deciso di non parlarne.

Oggi, però, riprendo il discorso del contagio da cellula a cellula, perché Alex Sigal e David Baltimore hanno pubblicato su Cell Host & Microbe un articolo in cui, pur non citando il lavoro spagnolo, approfondiscono la questione della persistenza dell’HIV nonostante la ART, che resta uno dei grandi scogli di fronte a qualsiasi tentativo di curare l’infezione, e trovano una sorta di compromesso con le obiezioni di Permanyer, sostenendo che le rapide mutazioni del virus potrebbero rendere il suo trasferimento da una cellula all’altra “abortivo”, perché si tratterebbe di un virus divenuto incapace di replicarsi in modo efficace.

Andiamo per gradi, seguendo un articolo che forse è solo l’ennesimo “punto della situazione”, ma mi pare abbia il pregio di essere esemplarmente chiaro.


La domanda da cui partono Sigal e Baltimore è se con gli antiretrovirali attualmente disponibili si sia raggiunto il limite di quanto si può ottenere nel sopprimere la replicazione attiva dell’HIV.
La questione è divenuta di particolare rilevanza nel contesto delle prime fasi dell’infezione, perché ci si chiede se sia possibile sopprimere l’infezione prima che si formino i reservoir. E, in effetti, questa è la logica sottostante alla somministrazione profilattica di farmaci prima o immediatamente dopo l’esposizione al virus. Inoltre, anche se si perde la possibilità di sfruttare la funzione profilattica degli ARV, ci sono un gran numero di prove che spingono a pensare che la somministrazione di farmaci nelle primissime fasi dell’infezione abbassi i livelli delle viremie che si raggiungeranno in seguito.
Di qui la grande importanza di capire esattamente come si stabilisca l’infezione.

L’intento di questo articolo di Sigal e Baltimore è descrivere i meccanismi grazie ai quali l’HIV risulta insensibile ai farmaci: i meccanismi per i quali servono nuovi cicli di replicazione e quelli per i quali tali cicli non sono necessari e che dipendono dai siti anatomici e dai tipi di cellule in cui la penetrazione dei farmaci è peggiore, dalla trasmissione dell’HIV da una cellula all’altra e dalla latenza del virus. Ciascuno di questi meccanismi può entrare in gioco in diversi momenti del decorso dell’infezione, come descritto nella figura che segue.


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L’INFEZIONE LATENTE ED ALTRI TIPI DI RESERVOIR IN CUI NON C’È REPLICAZIONE

La ART che è disponibile oggi può arrivare a bloccare completamente la replicazione del virus. Tuttavia, l’HIV ha un meccanismo di insensibilità ai farmaci, che non è basato sulla replicazione e che consiste nel provirus che si integra in modo latente in cellule che vivono molto a lungo, prevalentemente nei CD4 memoria.
In questo stato, il provirus integrato può rimanere quiescente per tutto il tempo di vita della cellula, anche per molti anni. Verrà duplicato insieme al DNA della cellula ogni volta che questa si divide. Poiché i CD4 memoria possono espandersi per proliferazione omeostatica, il reservoir può non decadere mai nel tempo.
Di tanto in tanto, un linfocita T memoria che contiene del provirus quiescente può riattivarsi e questo comporta la trascrizione del genoma virale. In questo modo la cellula diventa un linfocita T attivamente infetto che, se si interrompe la somministrazione dei farmaci, può dare inizio a una nuova infezione attiva.

Un’altra possibilità è che l’infezione non sia davvero latente, oppure che ad essere infettato non sia un linfocita T memoria. Potrebbe essere una staminale ematopoietica, oppure una cellula cerebrale: poiché queste cellule non vengono uccise dal virus, possono sia produrre costantemente virioni a partire dal provirus integrato al loro interno, sia – nel caso delle staminali – differenziarsi in cellule attivamente infette.
Questa popolazione virale sarebbe distinta dal virus presente nei CD4 latentemente infetti, ed è stata individuata in alcune persone in terapia antiretrovirale.
Come nel caso della latenza, non si verificano nuove infezioni in presenza di farmaci, ma un’infezione attiva può essere reinnescata se si interrompe la terapia.

Dal momento che ci si aspetta che la replicazione crei continuamente delle mutazioni nella sequenza virale, l’assenza di un’evoluzione nella sequenza dei virioni circolanti nel sangue in persone in terapia conferma la presenza di un reservoir in cui non c’è replicazione.

L’approccio cui si pensa adesso per eliminare il reservoir latente consiste nel distruggere le cellule latentemente infette mediante l’attivazione dell’HIV in queste cellule grazie a inibitori dell’iston-deacetilasi. Ci si attende che le cellule che producono attivamente virus vengano eliminate o dagli effetti citotossici del virus, o perché i linfociti citotossici riescono a riconoscerle e ad ucciderle. Parallelamente, si continuano a somministrare farmaci per evitare che le cellule attivamente infette ne infettino di nuove.



MECCANISMI DEL RESERVOIR CHE RICHIEDONO LA REPLICAZIONE VIRALE

1) DIMINUZIONE DEI LIVELLI DEI FARMACI


Se è vero che l’HIV si trasmette relativamente male, ha però una grande capacità di persistenza. Nonostante siano stati trovati potenti anticorpi anti-HIV in alcuni pazienti, nonostante una risposta immunitaria cellulare capace almeno di contenere l’infezione e nonostante una ART efficace, non si conoscono casi di completa eradicazione una volta che l’infezione si è stabilita. La risposta immunitaria è una pressione naturale che il virus deve affrontare. Alcune delle strategie che l’HIV usa per replicarsi nonostante la risposta immunitaria possono anche renderlo capace di replicarsi in presenza dei farmaci.

Un meccanismo di persistenza basato sulla replicazione attiva è l’infezione nei siti anatomici che in parte non vengono raggiunti dai farmaci, come il cervello, il tratto genitale e, in modo plateale, l’intestino.
Può anche accadere che i livelli intracellulari di farmaco siano subottimali e che le cellule espellano il farmaco attivamente.


2) TRASMISSIONE DA CELLULA A CELLULA

Un secondo meccanismo di insensibilità ai farmaci durante la replicazione attiva è l’infezione mediante trasmissione da una cellula all’altra. È una modalità di trasmissione diretta dell’HIV che passa il virus da una cellula infetta a poche cellule vicine mediante la formazione di interazioni dirette fra cellule infette e non infette. Questo tipo di trasmissione si avvantaggia delle interazioni che si verificano normalmente fra le cellule immunitarie, che formano dei contatti fisici attraverso i quali il virus viene trasportato entro la cellula non infetta. Si tratta di un processo mediato da un recettore e non dipendente dalla fusione cellulare. Durante la trasmissione da una cellula all’altra, molte particelle virali vengono trasmesse ad una singola cellula non infetta e questo rende più probabile che almeno una particella virale riesca a sfuggire ai farmaci o agli anticorpi e ad infettare la cellula.

La tramissione cellula-a-cellula viene in genere studiata nel caso dei linfociti T, ma si verifica anche fra i macrofagi e le cellule dendritiche. Per di più, la cellula infetta non ha bisogno di esserlo in modo attivo.

A causa del tasso di mutazione molto rapido dell’HIV, la replicazione nel contesto dei reservoir anatomici e della trasmissione da una cellula all’altra potrebbe portare all’accumularsi di mutazioni neutre, a meno che la replicazione non sia continua. Ci sono però parecchie ragioni per cui le mutazioni nella sequenza virale potrebbero non portare necessariamente ad una resistenza al farmaco e ad un associato fallimento terapeutico. Una ragione potrebbe essere, per esempio, che i mutanti resistenti nascano, ma a spese della fitness del virus e che questo li renda incapaci di diffondersi.
È dunque possibile che i reservoir basati su una replicazione virale attiva siano una causa della persistenza di un basso livello di infezione, senza però portare a un fallimento virologico e ad una esplosione dell’infezione.
È anche probabile che i meccanismi dei reservoir anatomici cooperino con la trasmissione da cellula a cellula per aumentare l’insensibilità ai farmaci.



INSENSIBILITÀ AI FARMACI DURANTE LA FINESTRA DEL TRATTAMENTO PROFILATTICO

Si ritiene che nelle prime ore o nei primi giorni dopo l’esposizione all’HIV l’infezione sia locale, vicina al sito di ingresso del virus. Le prime cellule che si infettano sono le cellule dendritiche o le cellule di Langerhans, seguite dai CD4 quiescenti. Dal sito di ingresso, l’infezione si estende ai linfonodi circostanti e questo porta alla sua trasformazione in infezione sistemica, che diventa acuta, con grandi quantità di virus presenti nel sangue. Questo causa una forte risposta immunitaria, che porta l’infezione ad attenuarsi in una fase apparentemente asintomatica, con livelli di viremia stabili, che in genere dura anni.

Un’infezione davvero precocissima può essere eradicata da una profilassi pre- e post-esposizione, che interviene sull’infezione prima che questa formi dei reservoir insensibili ai farmaci. Ci sono però diversi meccanismi che possono spiegare perché non sempre la PrEP funziona.
Anzitutto, la penetrazione dei farmaci può ridurre le concentrazioni di antivirali proprio nel sito di esposizione al virus: questo può essere particolarmente importante per le strategie profilattiche future, soprattutto per le terapie geniche basate sull’espressione di anticorpi, in cui si deve riuscire ad accumulare abbastanza titoli anticorpali nella mucosa vaginale o rettale.
Un secondo meccanismo per cui può crearsi insensibilità ai farmaci entra in gioco se il virus libero, fuori dalle cellule, viene catturato dalle cellule dendritiche presenti nel sito dell’infezione e trasmesso ai linfociti T o ai macrofagi.
Un terzo, e più studiato, meccanismo si instaura quando l’infezione iniziale è mediata non solo dal virus libero, ma anche da quello associato a cellule: questo può portare a una trasmissione da cellula a cellula, che a sua volta può sia ridurre la sensibilità ai farmaci, sia contribuire a trasportare il virus verso luoghi di infezione produttiva.

Esistono delle prove che la trasmissione da cellula a cellula si verifichi durante l’esposizione iniziale al virus:

  • 1. il sesso senza protezione porta le cellule immunitarie del partner con HIV a entrare in contatto con i linfociti T del partner non infetto;
    2. l’HIV può facilmente essere trasmesso in questo tipo di reazioni linfocitarie;
    3. è stato provato che esiste un’infezione associata alle cellule contagiando dei macachi con SIV per via vaginale;
    4. la concentrazione di cellule infette richiesta per la trasmissione nel modello scimmiesco rientrava nel range fisiologico, mentre l’infezione per via vaginale con virus liberi, fuori dalle cellule, ha richiesto dosi super-fisiologiche;
    5. si è dimostrato che nella trasmissione materno-infantile il numero di cellule infette nel latte e nella vagina si correla con la probabilità di infezione.



UN’INFEZIONE INSENSIBILE AI FARMACI CHE SI VERIFICA DOPO LA PROFILASSI NON FUNZIONA PIÙ

Dopo l’esposizione al virus, la finestra temporale durante la quale l’infezione può essere curata con i farmaci va da 24 ore (in caso di iniezione intravenosa) a 48 ore (in caso di trasmissione per via vaginale) [limitazione: questo dato deriva da un modello di infezione scimmiesca e gli animali usati in questi studi sono pochi]. Sembra dunque che, dopo i primi pochissimi giorni, la finestra di opportunità per una cura si chiuda, perché si sono ormai formati i primi reservoir insensibili ai farmaci.

Sigal e Baltimore si chiedono quale sia la natura di questi reservoir.
Dal momento che la PEP smette di funzionare circa tre giorni dopo il momento del contagio e dal momento che le cellule quiescenti sono rare e probabimente hanno bisogno dello stato di infezione acuta per formarsi in gran numero, pare ragionevole pensare che i primi reservoir presentino replicazione attiva anche in presenza di ART. Infatti, dal momento che i linfociti T quiescenti vengono infettati entro 2 o 3 giorni, è possibile che si formi un reservoir latente e che questo si auto mantenga grazie alla proliferazione omeostatica. È però più probabile che il reservoir latente abbia bisogno della fase acuta dell’infezione per disporre di un sufficiente numero di cellule e che, dopo essersi formato, continui ad essere riempito da nuove cellule. Quindi, anche se il reservoir latente è presente fin da un paio di giorni dopo l’infezione, è probabile che non sia completamente formato. A dimostrazione di questa ipotesi, si è visto che i trattamenti iniziati entro approssimativamente un mese dal momento dell’infezione riducono il set-point virale durante la fase cronica.

Una cosa che è necessario capire è se questi reservoir che si formano proprio all’inizio dell’infezione pur in presenza di ART abbiano dei cicli di replicazione insensibili ai farmaci. Cioè bisogna capire se si ha una replicazione attiva durante le fasi iniziali dell’infezione, nonostante la presenza di farmaci antiretrovirali.
Se qualsiasi replicazione venisse bloccata dalla ART, il tasso di decadimento del numero delle cellule infette dopo l’inizio della terapia non avrebbe alcuna influenza sul successivo numero di cellule latentemente infette, perché in questa fase non ci sarebbero nuove cellule infettate.

C’è però almeno uno studio che dimostra che non è così: il numero di CD4 quiescenti un anno dopo l’infezione è in correlazione con l’area sotto la curva della viremia DOPO l’inizio della ART. Questi reservoir transitori, forse basati su una replicazione attiva, devono essere ancora confermati. Ma, se esistono davvero, possono mediare la transizione fra una infezione curabile e una infezione che si è ormai radicata mediante reservoir insensibili ai farmaci.



L’INFEZIONE MATURA

I ricercatori sono tutti d’accordo che le cellule latentemente infette sono presenti durante la lunga fase in cui la viremia è stabile. C’è invece qualche discussione sul fatto che la latenza sia o meno l’unico meccanismo di formazione dei reservoir durante questa fase cronica.
L’intensificazione della terapia mediante un maggior numero di farmaci non comporta un’ulteriore diminuzione dei livelli di virus presenti nel sangue, coerentemente con l’idea che i farmaci dati come vengono dati adesso blocchino ogni replicazione. Tuttavia, in questa fase dell’infezione le cellule infette contengono livelli rilevabili di DNA non integrato, che è instabile e non dura a lungo senza nuove infezioni. L’HIV DNA non integrato è simile, nelle sequenze, al virus che riemerge dopo le interruzioni di terapia: questo indica che è esso la fonte del rebound virale. Inoltre, se si intensifica la ART aggiungendo il raltegravir, inibitore dell’integrasi, si verifica un aumento del DNA non integrato, a conferma del fatto che ci sono nuove infezioni in atto.

Un modo per spiegare questi risultati contrastanti è che la replicazione non accada nel sangue, ma piuttosto in altri comparti anatomici. Nei modelli scimmieschi, durante la ART il virus si concentra soprattutto nei tessuti linfatici e nel tratto gastrointestinale. Se si verifica una replicazione attiva nel tratto gastrointestinale e non nel sangue, ciò implica che in quel comparto non si abbia la stessa ripresa nel numero dei CD4 che si ha invece nel sangue.
In effetti, sembra che le cose vadano davvero così: nell’uomo, il GALT (tessuto linfatico associato all’intestino) non riesce ad avere una ripresa in termini di CD4 nonostante la viremia resti soppressa molto a lungo grazie alla ART.

In alcune persone in terapia con viremie plasmatiche clinicamente non rilevabili, i livelli di virus rimangono rilevabili nella cervice o nello sperma. Inoltre, sono stati trovati macrofagi infetti nello sperma di persone in ART, e questo è possibile solo se ci sono nuovi cicli di infezione, perché i macrofagi hanno una vita troppo corta per poter formare un reservoir latente stabile.
Una prova che continua ad esserci replicazione viene anche dal tratto respiratorio, dove la divergenza nelle sequenze virali e la frequenza di mutazioni resistenti nelle persone in terapia sono più elevate rispetto a quanto accade nel sangue.
Il fatto che in alcune persone con infezione cronica si possa dimostrare che c’è replicazione attiva del virus anche in presenza di ART dovrebbe spingere a comprenderne bene le cause – bassa penetrazione dei farmaci, trasmissione da una cellula all’altra, o altri meccanismi – prima di tentare di ripulire il reservoir latente: altrimenti, potrebbero crearsi nuove infezioni durante il processo di purging, e queste potrebbero riempire il reservoir, ostacolando gli sforzi.



CONCLUSIONI

Sigal e Baltimore riprendono la domanda da cui sono partiti: abbiamo raggiunto il limite di quello che si può ottenere con dei farmaci che sopprimono la replicazione virale, perché i fattori che ci bloccano sono da un lato dei reservoir dove non avviene replicazione, come il reservoir latente, e dall’altro la non perfetta aderenza alle terapie da parte dei pazienti? Oppure le attuali terapie che impediscono la replicazione possono essere portate ancora un passo più in là?
I risultati degli studi che usano gli HDACi per ripulire il reservoir latente attivando il virus non hanno – almeno fino ad ora – dimostrato in modo convincente di essere in grado di ridurre questo reservoir.
Se avranno successo, allora si potrà finalmente valutare la vera importanza del reservoir latente. Di contro, se i reservoir anatomici e la trasmissione da cellula a cellula concorrono alla persistenza virale in presenza di ART, dei trattamenti che impediscano la replicazione attiva in questi reservoir potranno essere efficaci nel ridurre e infine eliminare l’infezione. Ma questi trattamenti potrebbero dover essere sostanzialmente diversi da quelli in uso oggi, perché il semplice accrescere il numero dei farmaci non sembra aumentarne l’efficacia.
Il trattamento precoce è un’occasione in cui i farmaci possono avere un valore terapeutico aggiuntivo e capire come l’infezione si stabilisce può svelare la natura dei meccanismi che il virus utilizza per persistere.







Fonte: As good as it gets? The problem of HIV persistence despite antiretroviral drugs
Ultima modifica di Dora il martedì 23 ottobre 2012, 14:46, modificato 1 volta in totale.



nordsud
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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da nordsud » martedì 23 ottobre 2012, 14:46

Sono sbalordito, non avrei mai pensato che potessero esserci delle sinapsi virali che fungono da canale per trasmettere il virus da una cellula all'altra. Ancora meno capisco come possa spiegata la viremia in presenza dei farmaci in concentrazione normale.
Nel 2012 dopo quasi 30 anni dalla scoperta del virus brancolano ancora tutti nel buio.



Dora
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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da Dora » mercoledì 19 dicembre 2012, 7:56

Degli studiosi spagnoli dell'AIDS Research Institute IrsiCaixa guidati da Javier Martinez-Picado, in collaborazione con le università di Heidelberg e di Losanna, hanno pubblicato ieri su PLoS BIOLOGY i risultati di una ricerca durata una decina d'anni: sono riusciti a identificare un recettore sulla membrana delle cellule dendritiche (chiamato Siglec-1), che consente il passaggio dell'HIV dalla cellula dendritica al CD4.
Le cellule dendritiche mature (mDC) sono responsabili dell'attivazione di una risposta immune da parte dei CD4; ma possono essere infettate dall'HIV e, in quel caso, il loro contatto con i linfociti T contribuisce alla diffusione del virus nel tessuto linfoide.

L'ipotesi di Martinez-Picado e colleghi è che il passaggio attraverso le cellule dendritiche mature, che dovrebbe portare al trattamento e alla presentazione dell'antigene, venga sovvertito dall'HIV, che trova così un modo per accumularsi e poi trasmettersi.

Si tratta dell'identificazione di un nuovo meccanismo di trasferimento del virus da una cellula all'altra (trans-infezione), contro il quale si dovranno sviluppare nuovi farmaci. Si è visto infatti che, inibendo la proteina Siglec-1, le cellule dendritiche perdono la capacità di "catturare" l'HIV e, soprattutto, di trasferirlo entro i CD4.




Comunicato stampa: HIV Discovery Could Lead to New Therapeutic Treatments.

Articolo (open access): Siglec-1 Is a Novel Dendritic Cell Receptor That Mediates HIV-1 Trans-Infection Through Recognition of Viral Membrane Gangliosides

  • Abstract

    Dendritic cells (DCs) are essential antigen-presenting cells for the induction of immunity against pathogens. However, HIV-1 spread is strongly enhanced in clusters of DCs and CD4+ T cells. Uninfected DCs capture HIV-1 and mediate viral transfer to bystander CD4+ T cells through a process termed trans-infection. Initial studies identified the C-type lectin DC-SIGN as the HIV-1 binding factor on DCs, which interacts with the viral envelope glycoproteins. Upon DC maturation, however, DC-SIGN is down-regulated, while HIV-1 capture and trans-infection is strongly enhanced via a glycoprotein-independent capture pathway that recognizes sialyllactose-containing membrane gangliosides. Here we show that the sialic acid-binding Ig-like lectin 1 (Siglec-1, CD169), which is highly expressed on mature DCs, specifically binds HIV-1 and vesicles carrying sialyllactose. Furthermore, Siglec-1 is essential for trans-infection by mature DCs. These findings identify Siglec-1 as a key factor for HIV-1 spread via infectious DC/T-cell synapses, highlighting a novel mechanism that mediates HIV-1 dissemination in activated tissues.

    Author Summary

    Mature dendritic cells (mDCs) capture and store infectious HIV-1 and subsequently infect neighboring CD4+ T cells in lymphoid organs. This process, known as trans-infection, is a key contributor to HIV pathogenesis, but the precise mechanism and the identity of the receptor on the mDC surface that recognizes viral particles remain controversial. Although the interaction of HIV-1 envelope glycoproteins with the C-type lectin DC-SIGN has been suggested to mediate HIV-1 capture and trans-infection, later studies revealed an envelope glycoprotein-independent virus capture mechanism in mDCs. Here, we identify Siglec-1 as the surface receptor on mDCs that boosts their uptake of HIV-1 and their capacity to trans-infect CD4+ cells, leading in turn to HIV-1 disease progression. Siglec-1 captures the virus by interacting with sialyllactose-containing gangliosides exposed on viral membranes. This indicates that Siglec-1 functions as a general binding molecule for any vesicle carrying sialyllactose in its membrane, including exosomes and other viruses. We suggest that this natural pathway through mDC, which would normally lead to antigen processing and presentation, has been subverted by HIV-1 for its own storage and transmission.



Dora
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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da Dora » lunedì 9 settembre 2013, 18:29

Una breve comunicazione su AIDS a firma di Quentin Sattentau trova – sperimentalmente – un compromesso fra le posizioni di Sigal – Baltimore e le critiche di Permanyer.

Per riassumere la disputa:

  • Poiché l’infezione da cellula a cellula può aumentare la probabilità che un certo ammontare di virus riesca a sfuggire dalla potenza inibitoria degli antiretrovirali, questa è stata proposta da Baltimore come una possibile causa di replicazione attiva pur in presenza di ART soppressiva e dunque come possibile spiegazione della persistenza di una viremia di basso livello. Invece, Permanyer sostiene che la ART funziona allo stesso modo nel contrastare la diffusione dell’HIV, che si tratti di virus che circola libero nel sangue o di virus che passa per contatto fra una cellula e un’altra.
    E una questione connessa cui ancora non si è riusciti a dare una risposta chiara è se la resistenza che il virus oppone all’inibizione da parte degli antiretrovirali sia di tipo quantitativo, perché dipende da un maggior numero di virus che vengono trasferiti per cellula – come sostiene Baltimore; oppure se siano implicate delle differenze qualitative connesse al meccanismo dell’infezione da cellula a cellula fra diversi tipi di cellule target – come sostenuto da Sattentau nel 2010.


Sattentau fu il primo a dimostrare, tre anni fa, che il trasferimento dell’HIV da cellula infetta a cellula sana mediato dalle sinapsi virali è più efficiente rispetto alla diffusione da virus libero a cellula, quindi questo articolo su AIDS è una continuazione delle sue ricerche, che lo porta a dare almeno in parte ragione a Baltimore e a smentire le sue conclusioni del 2010.
In questo lavoro, Sattentau studia i macrofagi, che costituiscono fino al 7% della popolazione di cellule infette in vivo e sul cui ruolo nella patogenesi dell’infezione e nella persistenza dell’HIV negli ultimi anni si stanno scoprendo parecchie cose: per esempio, che i macrofagi infetti sono capaci di resistere agli effetti citopatici del virus, che possono ospitare virus capace di replicazione per settimane e addirittura mesi, che si localizzano soprattutto nei tessuti, dove la ART ha una penetrazione ridotta, e che sono bravissimi a far passare l’infezione ai CD4, proprio mediante la trasmissione da cellula a cellula.
Ecco perché Sattentau e colleghi hanno cercato di stabilire se questo tipo di trasmissione da macrofagi a CD4 risponda all’inibizione con antiretrovirali.

Molto in sintesi:

  • • hanno raccolto campioni di cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) da volontari sani;
    • hanno separato i monociti e li hanno fatti differenziare in macrofagi;
    • hanno infettato i macrofagi con un HIV-1 che esprimeva la luciferasi, un enzima che rende il virus luminescente;
    • hanno purificato i CD4 dalle PBMC;
    • li hanno attivati e messi a coltura con azidotimidina, nevirapina e raltegravir;
    • li hanno poi messi a contatto con i macrofagi infetti.


Dopo qualche altro passaggio, hanno scoperto che:

  • 1. La terapia antiretrovirale aveva un’efficacia ridotta contro l’infezione dei CD4 che avveniva per contatto fra cellula e cellula: hanno misurato l’attività della luciferasi per quantificare l’espressione dell’HIV integrato nei CD4, poiché questa è una misura diretta di infezione produttiva, e hanno osservato che l’inibizione del virus era di circa 20 volte più bassa in caso di transfer del virus da cellula a cellula.

    2. L’efficacia della terapia antiretrovirale dipendeva dalla molteplicità di infezioni della cellula target: Sattentau e colleghi avevano due ipotesi. La prima era che la minore efficacia della ART contro la trasmissione da cellula a cellula potesse dipendere da differenze qualitative nel meccanismo di trasferimento del virus, in particolare dall’interfaccia macrofago – CD4 risultante dalla formazione della sinapsi virologica; la seconda era che potesse semplicemente riflettere una maggior frequenza di eventi infettivi (MOI - multiplicities of infection) nella trasmissione diretta da cellula a cellula rispetto alla trasmissione di virus libero. Hanno dunque infettato i CD4 aumentando la quantità di inoculi di virus libero in presenza e in assenza di AZT e hanno osservato che la probabilità di inibizione diminuiva all’aumentare della quantità di virus. Parallelamente, per indagare l’effetto diretto della quantità di eventi infettivi in caso di trasmissione da cellula a cellula, hanno misurato gli inoculi prodotti dai macrofagi e hanno osservato che l’inibizione degli antiretrovirali era ugualmente efficace, sia in caso di trasmissione da cellula a cellula, sia in caso di infezione con virus libero. Con questo, si è dimostrato che l’efficacia dell’inibizione non è influenzata dal modo di trasmissione del virus in tutta una gamma di concentrazioni degli ARV.


La conclusione di Sattentau è che se la trasmissione da cellula a cellula fosse insensibile ai farmaci per ragioni qualitative ne seguirebbe che gli sforzi di indurre la trascrizione del virus nelle cellule latentemente infette – in presenza di ART – sarebbero destinati al fallimento, perché non si riuscirebbe a bloccare l’espansione delle cellule infette. Ma la bella notizia è che i risultati di questa ricerca ci dicono che anche l’infezione da cellula a cellula può essere inibita, purché ci sia abbastanza dose di farmaci a contrastare la quantità di virus che “sfidano” la cellula-target.

Questo fa dunque pensare che l’aumentata efficienza dell’inibizione virale grazie alla ART sia quantitativa e non dipendente da ragioni qualitative e che – in vitro - sia il MOI, la quantità di eventi infettivi, a determinare l’efficacia della ART. In vivo, invece, è un’altra storia, perché è improbabile che si possano raggiungere in vivo nel sangue le altissime concentrazioni di virus extracellulare che servono per saturare l’attività degli antiretrovirali, dal momento che l’infettività dei virioni è limitata dalla diluizione di fase fluida e dal fatto che la proteina Env degenera rapidamente. Ma un’altra storia ancora è nei tessuti, perché lì, dove le cellule sono molto più concentrate, si verificano maggiori eventi di trasmissione da una cellula all’altra e gli antiretrovirali fanno più fatica a penetrare.


Una smentita a sé stesso, uno zuccherino a Baltimore e uno zuccherino a Permanyer.





Articolo: High multiplicity HIV-1 cell-to-cell transmission from macrophages to CD4R T cells limits antiretroviral efficacy.



nordsud
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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da nordsud » mercoledì 11 settembre 2013, 7:33

Dora ha scritto:_antiretroviral_therapy.pdf.html]Cell-to-cell spread of HIV permits ongoing replication despite antiretroviral therapy[/url].

Perché è importante? Perché Baltimore presenta un modello di replicazione virale attiva durante la HAART, che porta a ipotizzare che la persistenza dei reservoir, pur in presenza di una terapia che abbia successo nell’azzerare la viremia, possa essere spiegata da una infezione che si propaga da una cellula all’altra e che si fa beffe della normale concentrazione dei farmaci. Questo potrebbe quindi spiegare perché la HAART non riesce ad eradicare l’infezione.

I due meccanismi – NON mutualmente esclusivi - proposti per spiegare il mantenimento di un reservoir pur in presenza di terapia antiretrovirale sono la latenza e la replicazione in corso.
Si è però visto che la trasmissione diretta del virus da una cellula all’altra causa un’infezione efficiente, che riesce ad aggirare la perdita di virus libero che si verifica mentre l’HIV circola nel flusso sanguigno in cerca di cellule da infettare. Anche se si sa che l’infezione da una cellula all’altra non protegge completamente il virus dagli effetti degli antiretrovirali, Baltimore ha osservato che questa forma di trasmissione è comunque meno sensibile ai farmaci rispetto all’altra e ha costruito un modello probabilistico dell’infezione, che è in grado di spiegare questo risultato.

Stamattina mi sono alzato dalla parte sbagliata del letto e dopo aver letto questo post è cominciata a frullarmi per la testa la consapevolezza che i ricercatori negli ultimi 10 anni non hanno capito un c..zo di niente.
I farmaci IP-NNRT-NRT ( gli altri intervengono in maniera diversa ) IMPEDISCONO LA FORMAZIONE VIRALE DEL VIRUS ALL INTERNO DELLA CELLULA.
Che storia è mai questa di virus che si trasmettono per "contatto" da una cellula all'altra ? Cosa che non mi sembra neanche tanto strana.. Però bisogna fare un passo precedente e chiedersi : ma da dove saltano fuori questi virus ? Vengono fabbricati in "posti" che non sono le cellule ? Quando i farmaci fanno il loro dovere..diventa secondario il modo di trasmissione del virus.. perchè non viene proprio "prodotto". E' un semplice ragionamento.. e credo che nessun ricercatore potrà mai smontarlo.


Sono sempre più convinto che l'haart non riesce ad eradicare perchè non arriva in tutti gli scompartimenti dove si replica il virus.
Reservoirs e latenza sono "termini" ad hoc :mrgreen: per dare un pò di tono o per mascherare questa evidente verità. Non eradicare perchè la haart non basta ( Magari il dosaggio necessario sarebbe così tanto da diventare tossico e mortale) o perchè i reservoirs non crepano di suo.. non fa cambiare di una virgola il fatto che dopo quasi 20 anni dalla haart.. siamo rimasti come 20 anni orsono. PUNTO.

Ad ogni modo un grazie a Dora per i continui aggiornamenti. :)



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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da Dora » mercoledì 11 settembre 2013, 8:39

nordsud ha scritto:Sono sempre più convinto che l'haart non riesce ad eradicare perchè non arriva in tutti gli scompartimenti dove si replica il virus.
Credo che su questo ci sia un consenso quasi unanime, soprattutto se si pensa alla diversa penetrazione che (alcuni) antiretrovirali hanno nei linfonodi e nei tessuti.
Per questa idea di reservoir non latenti, ma in cui il virus si replica attivamente ma non viene raggiunto dai farmaci e per tutto il discorso sulla replicazione "criptica" nei santuari, cfr. [CROI 2012]C. Fletcher: sconfiggere i santuari farmacologici.
Ad ogni modo un grazie a Dora per i continui aggiornamenti. :)
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Dora
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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da Dora » sabato 1 marzo 2014, 9:39

Un articolo dell’Università di Yale appena pubblicato su PLoS PATHOGENS ci riporta alla questione del contagio da cellula a cellula, che sappiamo essere notevolmente più efficace rispetto alla disseminazione del virus al di fuori delle cellule e che si ritiene possa avere un ruolo nella patogenesi dell’infezione pur in presenza di terapia antiretrovirale soppressiva.

Eravamo fermi a lavori come quelli che hanno dato inizio a questo thread, in cui ci era stato spiegato che l’alta Molteplicità di Infezione (MOI) locale osservata nei siti di contatto fra le cellule può comportare la morte dei CD4 circostanti e proteggere il virus dai meccanismi immunologici e cellulari messi in atto dall’organismo per distruggerlo.

Inoltre, era stata fatta l’ipotesi che questo tipo di trasmissione possa diminuire l’efficacia dei farmaci antiretrovirali. Il trasferimento di grandi quantità di particelle virali, infatti, si ritiene possa ridurre l’effettiva concentrazione dei farmaci all’interno delle cellule e così fornire un meccanismo per la diffusione del virus anche in presenza di ART.
Un’efficacia ridotta dei farmaci in caso di trasmissione dell’HIV da cellula a cellula è stata segnalata per il tenofovir (TFV), l’efavirenz (EFV) e la zidovudina (AZT). Ma poiché queste ricerche sembrano in conflitto con l’osservazione clinica del successo della ART nel sopprimere la replicazione virale in milioni di pazienti, non si riusciva a capire se la trasmissione dell’HIV da cellula a cellula abbia un significato clinico, oppure no.

Questa ricerca di Yale ha dunque confrontato l’efficacia di diversi ARV contro la trasmissione da cellula a cellula e contro la trasmissione dell’HIV libero al di fuori delle cellule.
È stato testato un gruppo molto vario di antiretrovirali, che includeva NRTI, NNRTI, IP e INI, e quel che si è visto è

  • [divbox]1. che mentre alcuni NRTI perdevano di efficacia nel caso di passaggio del virus da cellula a cellula, tutte le altre classi di farmaci rimanevano attive;
    2. e soprattutto, che gli NRTI tornavano ad essere potentemente inibitori contro la replicazione del virus nel momento in cui venivano combinati con altri farmaci della stessa classe o di classi diverse (la spiegazione più plausibile di questo risultato è che la sinergia degli NRTI con gli altri farmaci abbia comportato una migliore inibizione della trascrittasi inversa).[/divbox]


Questo secondo risultato è importante, perché spiega l’efficacia clinica della terapia combinata.

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  • [divbox]3. Si è anche visto che l’efficacia della ART contro la trasmissione dell’HIV da una cellula all’altra può essere sintetizzata testandone l’azione contro alte MOI virali, perché la capacità dei singoli farmaci e delle combinazioni di interferire con la trasmissione cellula-a-cellula del virus si correla con la loro efficacia contro alte MOI virali.[/divbox]


Mettendo insieme questi risultati, Walter Mothes e colleghi ne hanno concluso che la capacità di sopprimere alte MOI virali è una caratteristica complessiva dei regimi di ART e che di questa caratteristica sarebbe opportuno tenere conto quando si creano nuove terapie antiretrovirali.

I regimi di ART applicati nella clinica funzionano bene nel bloccare la trasmissione del virus da una cellula all’altra probabilmente proprio perché sono efficaci anche contro gli alti numeri di particelle virali trasferite nei siti di contatto cellula-a-cellula.
Poiché i regimi terapeutici standard comprendono la combinazione di farmaci differenti (2 NRTI + 1 NNRTI o IP) sembra dunque abbastanza improbabile che la trasmissione del virus da una cellula all’altra costituisca un meccanismo in grado di spiegare la replicazione virale attiva in presenza di terapia soppressiva.
Serviranno però ancora degli studi che visualizzino in vivo la disseminazione virale per capire con precisione i meccanismi della diffusione dell’HIV da una cellula all’altra.

Confermata l’efficacia clinica della ART.
Tutto bello? Non proprio, perché questi risultati dimostrano anche che le monoterapie che stanno iniziando ad andar di moda di questi tempi tanto sicure non sono.
I ricercatori di Yale hanno dato prova del fatto che un virus resistente ai farmaci può essere selezionato dalla diffusione cellula-a-cellula in caso di farmaci inefficaci e ottenere così un vantaggio replicativo. Questo tipo di trasmissione dell’HIV può pertanto contribuire alla selezione di virus resistenti ai farmaci e quindi al fallimento terapeutico in condizioni di scarsa aderenza.

Questo studio ha così fornito anche una dimostrazione del fatto che la trasmissione cellula-a-cellula può contribuire alla patogenesi dell’HIV, costituendo un meccanismo di escape virale in caso di monoterapie o di regimi terapeutici inadeguati.






Articolo su PLoS PATHOGENS: Highly Active Antiretroviral Therapies Are Effective against HIV-1 Cell-to-Cell Transmission



Dora
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Re: Replicazione virale durante HAART per contagio fra cellu

Messaggio da Dora » sabato 29 agosto 2015, 8:57

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PIROPTOSI O APOPTOSI: IL MODO IN CUI HIV-1 SI DIFFONDE DETERMINA IL TIPO DI MORTE CUI I CD4 VANNO INCONTRO - LA PATOGENESI DELL'INFEZIONE DA HIV SECONDO WARNER GREENE E COLLEGHI DEL GLADSTONE INSTITUTE


Alla fine del 2013, dal laboratorio di Warner Greene al Gladstone Institute of Virology and Immunology di San Francisco arrivò un lavoro, che era la continuazione di una ricerca pubblicata già nel 2010 e che si può far risalire agli inizi degli anni 2000. Da come la stampa, certamente molto ben imboccata dai collaboratori di Greene, presentò la cosa, pareva che fosse stato infine risolto un annoso mistero – quello del meccanismo attraverso cui l’HIV uccide i CD4, in breve il meccanismo attraverso cui l’HIV causa l’AIDS.

Solo che propriamente questo un mistero non era, perché già da molti anni erano stati descritti diversi meccanismi attraverso i quali l’infezione da HIV causa la morte di queste ed altre componenti essenziali del sistema immunitario. Ad esempio si era capito non solo che i CD4 produttivamente infetti muoiono perché producono virus e gli effetti tossici di questo inducono apoptosi nelle cellule, ma anche che gli alti livelli di attivazione immunitaria che si presentano durante l’infezione non trattata possono indurre attivazione e successiva morte non solo nei CD4 non infetti, ma anche nei CD8, nelle cellule dendritiche e perfino nei linfociti B.

Gilad Doitsh, Greene e colleghi avevano lavorato usando un virus che sfrutta il corecettore CXCR4 per entrare nelle cellule e avevano individuato un meccanismo che poteva spiegare perché in circa la metà delle persone con infezione avanzata in cui si verifica l’emergere di un virus X4-tropico (rarissimo ad esempio in chi ha un HIV di sottotipo C) si verifica anche una rapida perdita di CD4 con conseguente evoluzione verso l’AIDS. Ma non possiamo dimenticare che anche il resto delle persone in cui l’infezione non viene trattata progredisce comunque verso l’AIDS pur avendo esse solo un virus R5-tropico.

In sostanza, Greene, Doitsh e colleghi avevano prelevato ex vivo dalle tonsille di persone HIV negative del tessuto linfatico (HLAC – human lymphoid aggregate culture), scelto perché è noto che la maggior parte dei CD4 si localizzano nei tessuti linfatici e non nel sangue. Poi l’avevano messo a coltura con del virus X4 e avevano osservato una quasi totale distruzione dei CD4 presenti, anche se solo il 5% di questi era stato infettato. Avevano dunque identificato un “effetto bystander”, che aveva portato a morire tanti CD4 quiescenti che, essendo non attivati, non erano in grado di essere produttivamente infettati e nei quali, dunque, il tentativo di ingresso da parte del virus era abortito ma aveva lasciato frammenti di DNA estraneo che avevano innescato una violenta risposta infiammatoria.

Il meccanismo che avevano identificato come causa della morte dei CD4 non infetti era la piroptosi, una forma di morte programmata delle cellule per molti aspetti simile alla più nota apoptosi, ma che si realizza attraverso uno stato infiammatorio particolarmente intenso associato alla risposta immune contro un patogeno. Mentre la piroptosi per realizzarsi deve essere mediata da un enzima che si chiama caspasi-1, l’apoptosi è mediata dalla caspasi-3.

Qual era il problema del lavoro pubblicato due anni fa?

Era che Greene e colleghi sostenevano che più del 95% dei CD4 nel loro modello erano morti per questo “effetto di vicinanza” causato dalla piroptosi e avevano dunque identificato nella piroptosi il meccanismo centrale nella patogenesi dell’infezione da HIV.
Ma i dati che presentavano sulla possibilità di estendere il loro modello di patogenesi anche all’infezione da virus R5 erano a dir poco lacunosi.
Avevano infatti prelevato dei linfonodi a un paio di pazienti non in terapia, con virus R5-tropico e con CD4 molto bassi e avevano mostrato una certa attività della caspasi-1 (quella che media la cascata di eventi che portano alla piroptosi) in aree dei linfonodi in cui in genere si trovano tanti CD4 quiescenti. Questo l’avevano ritenuto un elemento sufficiente per poter estendere anche al virus R5 gli stessi risultati visti con il virus X4.
Non avevano però affatto dimostrato che i CD4 non infetti di persone con virus R5-tropico venivano uccisi dagli effetti della piroptosi. Quindi quel 95% di CD4 non infetti distrutti dall’effetto bystander dell’infiammazione scatenata dalla piroptosi sono da intendere come CD4 di persone con virus X4.
Una piccola minoranza, che non permette di porre la piroptosi al centro della patogenesi dell’infezione da HIV.

A questo si deve aggiungere che in un articolo del 2003, che fa da base teorica a questa ricerca, si era visto che – sempre in un sistema HLAC come quello usato qui – il virus di tipo R5-tropico aveva causato pochissima distruzione dei CD4 circostanti non infetti.
Basta l'abstract a capire quello che nell'articolo viene trattato in modo approfondito: "Here we show that in human lymphoid tissues ex vivo, apoptosis of uninfected bystander CD4 T cells is a major mechanism of lymphocyte depletion caused by X4 HIV-1 strains but is only a minor mechanism of depletion by R5 strains".
In qualche momento, durante il successivo decennio, al Greene Lab devono aver cambiato idea - peccato si siano dimenticati di dircelo.

Veniamo finalmente a oggi, con la pubblicazione su Cell Reports di una ridefinizione della ricerca del 2013.
Galloway, Doitsh e colleghi hanno continuato a lavorare su un modello di tessuto linfatico infettato con virus X4, ma purtroppo continuano anche ad estendere arbitrariamente i loro risultati all’infezione con virus R5 (infection of HLACs with HIV-1 produces extensive loss of CD4 T cells––less than 5% of the cells die as a result of productive viral infection, while >95% of them die as a consequence of abortive infection).
E irresponsabilmente rendono pubblico il loro lavoro con un comunicato stampa con un titolo che si presta a fraintendimenti a non finire, perché verrà inteso dal grande pubblico come la dimostrazione che non è l’HIV a causare l’AIDS, ma sono le nostre stesse cellule del sistema immunitario.

Un bell’esempio di come siano sovente i ricercatori stessi a fornire argomenti alle manipolazioni antiscientifiche dei negazionisti. Sia che si tratti di ricerca del colpo di teatro, sia che si tratti di ingenuità (ma questi sono recidivi!) o di incoscienza, il risultato è il medesimo:

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Questa volta, poi, non potranno dare la colpa dei fraintendimenti agli uffici stampa, perché sono loro stessi a scrivere, fra i punti salienti dell’articolo, che le “unità d’assalto”, in pratica le Einsatzgruppen che fanno fuori i CD4, sono le cellule infette e non i virus:

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Forse la ricerca dell’effetto mediatico serve però a mascherare il notevole ridimensionamento che quest’ultimo lavoro porta al ruolo della piroptosi nella patogenesi dell’infezione da HIV.

Infatti, quello che dal Greene Lab ci viene oggi raccontato è che la deplezione dei CD4 che porta all’AIDS è stata studiata prevalentemente usando virioni liberi di HIV per infettare CD4 attivati presenti nel sangue, ma dato che la risposta citopatica all’HIV non è limitata alle cellule produttivamente infette, perché ne muoiono anche molte quiescenti che stanno nei tessuti e che sono sane, allora Galloway, Doitsh e colleghi hanno usato il loro modello HLAC e hanno scoperto che i CD4 ivi presenti, più che essere infettati da virus libero, muoiono per l’effetto del contagio da cellula a cellula.

Questo tipo di infezione, che sappiamo essere più efficiente da 100 a 1000 volte rispetto a quella attraverso virioni liberi, scatena comunque una risposta immune che culmina nella piroptosi dipendente dalla caspasi-1 e comporta la morte di CD4 che non sono infettati perché sono quiescenti.
Attraverso diversi esperimenti – in cui, non dimentichiamolo, è stato comunque sempre e solo utilizzato del virus X4 – si è visto che il modo in cui l’HIV si diffonde determina il modo in cui i CD4 muoiono: specificamente, serve che la trasmissione del virus avvenga da cellula a cellula perché i CD4 che non sono suscettibili di infezione perché quiescenti muoiano per piroptosi. Invece, in questo modello, l’infezione con virioni liberi causa la morte di pochi CD4 che sono attivati e dunque vengono infettati in modo produttivo.

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Le conclusioni dell’articolo a me pare che siano tratte in modo indebito, perché vi si sostiene che queste scoperte suggeriscono la necessità di un “radicale cambiamento nella visione prevalente della patogenesi dell’HIV, in cui la maggior parte degli effetti patogenici dell’HIV-1 sono attribuiti all’uccisione dei CD4 da virioni che circolano liberamente.”
L’ipotesi proposta da Greene e colleghi è invece che

  • le “unità d’assalto” fondamentali che portano alla deplezione dei CD4 e infine alla progressione verso l’AIDS sono cellule produttivamente infette, che risiedono nei tessuti linfatici e mediano la diffusione del virus da una cellula all’altra. L’infezione produttiva (“diretta”) e quella abortiva (“bystander”) sono viste sovente come vie indipendenti che portano alla deplezione dei CD4. I nostri risultati adesso dimostrano che le infezioni produttive e abortive non sono eventi citopatici indipendenti, ma sono piuttosto legate in una singola cascata patogenetica. Le cellule produttivamente infette sono indispensabili per trasmettere il virus attraverso le sinapsi virologiche formate con i CD4 quiescenti. Infine, la cellula produttivamente infetta muore per apoptosi, mentre le cellule circostanti muoiono per piroptosi.


Quanta fretta! Aspettiamo che dimostrino che questo modello può essere esteso anche agli stramaggioritari virus R5-tropici.




P.S.

C'è, secondo il Greene Lab, un modo per contrastare i distruttivi effetti della piroptosi: gli inibitori della caspasi-1, e uno di questi - il VX-765 - hanno cominciato a studiarlo un paio d'anni fa (risultati in vitro pubblicati in un report su Science). Anche su questo si attendono aggiornamenti.



FONTI:



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