Protocol Zero_Wainberg: monoterapia con dolutegravir a naive
Inviato: lunedì 7 luglio 2014, 8:52
Lo scorso maggio, all'ISHEID, è stata lanciata una possibile nuova strategia di cura funzionale. Riprendo oggi il post scritto allora, cui farò seguire qualche informazione in più, perché arriva un annuncio a sorpresa: dopo che – neppure due mesi fa - era stato detto dai protagonisti della ricerca che questo approccio alla cura doveva essere ancora studiato a fondo nei modelli animali … colpo di scena! Partono ben tre sperimentazioni pilota su esseri umani e degli animali non si parla più.
Poiché l’approccio di cui stiamo parlando gioca sulla creazione di resistenze, credo meriti di essere osservato con un minimo di spirito critico.
Dal thread “ISHEID 2014 - Marsiglia 21-23 maggio”:
L’altro giorno, Alain Lafeuillade ha emesso uno dei suoi comunicati stampa in cui, in modo piuttosto sibillino, annuncia che sono in preparazione tre studi pilota per testare l'approccio che Wainberg definisce "rivoluzionario", perché è il contrario di quanto è stato fatto fino ad ora e consiste nel silenziare, invece che attivare, la trascrizione dell'HIV.
L'idea è quella preannunciata all’ISHEID - di dare per un certo periodo di tempo il dolutegravir in monoterapia a pazienti naive e di vedere se davvero questo inibitore dell'integrasi di seconda generazione è capace di selezionare un virus resistente con una fitness virale enormemente diminuita, in sostanza un virus azzoppato da quelle particolari mutazioni.
Il "Progetto" o "Protocollo Zero" dovrebbe iniziare a settembre e, secondo quanto prevede Lafauillade, avere dei risultati per il prossimo Workshop on HIV Persistence, Reservoirs and Eradication Strategies, che si terrà a Miami nel dicembre 2015.
Mark Weinberg sul dolutegravir ha lavorato e scritto moltissimo e in modo estremamente specialistico ma, per cercare di capire meglio l'idea da cui parte il Protocollo Zero, ho letto un suo articolo pubblicato su Retrovirology l’anno scorso – Viral fitness cost prevents HIV-1 from evading dolutegravir drug pressure – ed una opinione dedicata proprio a descrivere questa strategia, che Wainberg ha scritto su BMC Medicine in occasione della giornata mondiale dedicata all'AIDS lo scorso 1 dicembre: What if HIV were unable to develop resistance against a new therapeutic agent?
In breve, dalla diverse sperimentazioni cliniche di confronto fra il dolutegravir – che è stato approvato nei mesi scorsi per la commercializzazione negli Stati Uniti e in Europa, non ancora in Italia – e gli altri due inibitori dell’integrasi, raltegravir e elvitegravir, è emerso che mentre i due farmaci di prima generazione sono suscettibili di fallimento virologico a causa dell’emergere di mutazioni resistenti nella sequenza che codifica per l’enzima integrasi, nei pazienti naive che sono stati trattati con dolutegravir non si sono viste mutazioni importanti.
Invece in vitro, usando del virus HIV-1 di ceppo B, sono state selezionate due mutazioni – la R263K e la H51Y – che hanno rivelato una natura assai particolare (ad altri sottotipi di HIV non si fa cenno, quindi immagino non siano stati studiati).
Tipicamente, lo svilupparsi di resistenze che riguardano gli inibitori dell’integrasi di prima generazione, ma anche altre classi di farmaci come alcuni IP e alcuni NRTI, segue un modello che è documentato anche nel caso di batteri resistenti agli antibiotici o di altri virus resistenti agli antivirali e che può essere descritto così:
Wainberg ha invece dimostrato che la mutazione H51Y, che da sola è sostanzialmente innocua, in combinazione con R263K aumenta la resistenza al dolutegravir più di quella conferita al virus dalla sola mutazione R263K, ma crea comunque una resistenza di basso livello, e però si accompagna con un’enorme diminuzione
Queste osservazioni potrebbero spiegare l’assenza di mutazioni resistenti al farmaco nei pazienti naive trattati con dolutegravir, nel senso che i virus che possiedono entrambe le mutazioni potrebbero replicarsi così poco da non riuscire ad essere rilevati mediante i test standard usati per valutare la resistenza ai farmaci negli studi clinici.
Wainberg spiega di avere continuato a studiare per quasi tre anni il dolutegravir in colture di tessuti e di non essere riuscito a identificare alcuna mutazione potenzialmente compensatoria, che possa rendere di nuovo funzionale l’integrasi nello stesso momento in cui aumenta i livelli di resistenza al dolutegravir al di sopra di quelli causati dalla combinazione delle due mutazioni R263K e H51Y.
Questo può dipendere dalla bassa capacità di replicazione dei virus che contengono le due mutazioni, o dal cattivo funzionamento dell’integrasi, o da entrambe le caratteristiche di questi virus.

Wainberg ammette che per avere una conferma definitiva di questi risultati è necessario che il dolutegravir venga utilizzato estesamente all’interno di terapie di prima linea, soprattutto al di fuori dei trial clinici, in contesti in cui la necessità dell’aderenza ai trattamenti possa essere percepita in modo meno chiaro dai pazienti. Ritiene, tuttavia, che se questi risultati ricevessero ulteriori validazioni, si dovrebbe esplorare la possibilità che la combinazione delle mutazioni R263K e H51Y – magari in combinazione con altre strategie – sia in grado di ridurre, o addirittura impedire, nuovi cicli di integrazione dell’HIV DNA entro le cellule dell'ospite. E aggiunge che sta studiando la cosa nelle scimmie e che pure i topi potrebbero fornire un utile modello.
Queste cose le scriveva nel febbraio del 2013 e sottolineava un aspetto su cui era necessario porre attenzione: il fatto che certi virus non riescano ad integrarsi non abolisce il problema dei reservoir di HIV che si sono creati prima del trattamento con dolutegravir.
Lanciava però allora l’idea che se si sospendessero tutti i farmaci antiretrovirali da persone in ART si potrebbe verificare un’attivazione di virus latenti nei reservoir. In questa situazione, i virus che non riescono ad integrarsi in modo efficace perché in loro l’integrasi non funziona bene potrebbero non essere capaci di ripopolare i reservoir. Quindi diversi cicli di terapia/sospensione potrebbero, nel tempo, diminuire le dimensioni dei reservoir.
Alla fine del 2013 - pubblicando in occasione del I dicembre What if HIV were unable to develop resistance against a new therapeutic agent? - la strategia di Wainberg era stata abbozzata.
Anzitutto, il dolutegravir potrebbe essere usato nei protocolli di TasP (Treatment as Prevention), in cui ci si può attendere che le riduzioni delle viremie a livello di popolazione comportino la diminuzione dei tassi di trasmissione dell’HIV, così dando una risposta al timore che si possano creare resistenze ai farmaci usati in questi protocolli.
L’idea di Wainberg è infatti che potremmo scoprire che i virus che sono resistenti al dolutegravir non possono essere compensati da ulteriori mutazioni entro l’integrasi e sono dunque gravemente svantaggiati nella replicazione rispetto ai virus wild type. Questo acquisterebbe ancora maggiore importanza se si confermasse quanto visto nei trial clinici che hanno portato all’approvazione del farmaco: e cioè che il dolutegravir riesce a conservare un’attività antivirale significativa pur in presenza di virus che hanno una o due mutazioni che li rendono resistenti.
Anzi, l’ipotesi di Wainberg è che lo sviluppo di resistenze contro il dolutegravir possa dare un beneficio unico, sia a livello virologico, sia a livello clinico.
Ecco quindi la proposta di STUDIARE IL DOLUTEGRAVIR DATO IN MONOTERAPIA A PAZIENTI NAIVE: si dovesse scoprire che i risultati ottenuti sono simili a quelli osservati nei trial di fase III che hanno portato all’approvazione del farmaco, si avrebbe una conferma parziale dell’ipotesi sull’assenza di resistenze spiegata sopra.
Wainberg, nell’articolo del dicembre scorso, sembrava consapevole che un trial del genere potrebbe far arricciare il naso ai comitati etici. Si affrettava infatti a sottolineare come un simile studio di monoterapia “dovrebbe essere accompagnato da intenso monitoraggio virologico delle mutazioni che conferiscono resistenza, che dovrebbe includere l’uso di metodi di sequenziamento ultrasensibili per identificare mutazioni resistenti al dolutegravir sia nell’RNA dei campioni di plasma dei pazienti, sia nel DNA delle cellule mononucleate del sangue periferico”.
Un altro problema non di poco conto è che a un certo punto sarebbe necessario interrompere la terapia e vedere se i virus danneggiati, quelli che contengono mutazioni resistenti al dolutegravir, sono capaci o no di emergere. Che ne sarebbe dei virus wild type archiviati nei reservoir? Presumibilmente, una gran parte di loro inizierebbe a replicarsi a seguito dell’attivazione dei reservoir, come si vede in genere nei trial sulle interruzioni terapeutiche. Tuttavia, ricominciare con dolutegravir in monoterapia potrebbe trasformare questi virus wild type in deboli virus resistenti al dolutegravir.
Insomma, la speranza è che dopo un certo numero di stop and go tutto il virus presente si trasformi in un virus attenuato, che fa una gran fatica a replicarsi e in cui non si sviluppano mutazioni compensatorie.
Da qui alla cura funzionale il passo sarebbe breve.
EDIT: ho cambiato titolo del thread.
Poiché l’approccio di cui stiamo parlando gioca sulla creazione di resistenze, credo meriti di essere osservato con un minimo di spirito critico.
Dal thread “ISHEID 2014 - Marsiglia 21-23 maggio”:
Ricordo, anzitutto, che di Dolutegravir (Tivicay) parliamo diffusamente in due diversi thread: Dolutegravir, nuovo inibitore sperimentale dell'integrasi e [CROI 2012] Dolutegravir.Dora ha scritto:È solo una mia impressione o l'avete notato anche voi che quest'anno l'ISHEID è passato quasi del tutto sotto silenzio?
Di solito Lafeuillade è molto più ciarliero e inonda il mondo di comunicati stampa. Invece, quest'anno il sito del congresso non riporta neppure il programma definitivo aggiornato (che può però essere scaricato in HIV-reservoir: http://hiv-reservoir.net/images/stories ... 5%2005.pdf).
(…) L'unico comunicato stampa emesso dal convegno riguarda la presentazione di Mark Wainberg, della Mc Gill University di Montreal, sul Dolutegravir (inibitore dell'integrasi), contro il quale nessuno dei pazienti naive trattati nelle sperimentazioni cliniche ha sviluppato resistenza, e che nel suo blog Lafeuillade annuncia come "un possibile nuovo modo per arrivare a una cura funzionale".
Da quanto racconta Lafeuillade, oltre a non aver visto lo sviluppo di resistenze al Dolutegravir nei suoi pazienti, Wainberg non ha visto neppure l'emergere di mutazioni resistenti agli altri NRTI associati nella ART. Tornato dunque in laboratorio, dopo molti passaggi cellulari, Wainberg è riuscito infine a selezionare in vitro due mutazioni - la R263K e la H51Y. Queste mutazioni si sono rivelate difficili da riscontrare nei pazienti, ma quando sono state selezionate insieme in vitro la fitness dell'HIV è risultata diminuita dell'80%.
L'ipotesi che ne ha tratto Wainberg è che, se si fa iniziare ai pazienti naive con infezione recente una terapia contenente Dolutegravir, l'HIV possa non essere capace di evolvere, dando così tempo al sistema immunitario di sviluppare una risposta cellulare in grado di controllare il virus senza necessità di farmaci.
Ci si troverebbe in una situazione simile a quella dei retrovirus fossili, che si sono integrati nel nostro genoma molte migliaia di anni fa e "coesistono" pacificamente con noi, senza crearci più danni.
Questa idea dovrà essere testata prima nelle scimmie e poi negli uomini. Dal momento che ormai il Dolutegravir è in commercio, per quanto riguarda gli uomini si potrebbero fare uno studio osservazionale e un trial "proof of concept".
Se funziona, sarebbe la prima volta che un farmaco si dimostra capace di contrastare l'enorme capacità dell'HIV di seguire una selezione di tipo darwiniano, "sabotando" così la patogenesi del virus.
La prima domanda cui è necessario rispondere riguarda la capacità del Dolutegravir di indurre "tolleranza all'HIV".
Questa l'intervista a Mark Wainberg fatta da Pierre Dellamonica del Centre Hospitalier Universitaire di Nizza:
L’altro giorno, Alain Lafeuillade ha emesso uno dei suoi comunicati stampa in cui, in modo piuttosto sibillino, annuncia che sono in preparazione tre studi pilota per testare l'approccio che Wainberg definisce "rivoluzionario", perché è il contrario di quanto è stato fatto fino ad ora e consiste nel silenziare, invece che attivare, la trascrizione dell'HIV.
L'idea è quella preannunciata all’ISHEID - di dare per un certo periodo di tempo il dolutegravir in monoterapia a pazienti naive e di vedere se davvero questo inibitore dell'integrasi di seconda generazione è capace di selezionare un virus resistente con una fitness virale enormemente diminuita, in sostanza un virus azzoppato da quelle particolari mutazioni.
Il "Progetto" o "Protocollo Zero" dovrebbe iniziare a settembre e, secondo quanto prevede Lafauillade, avere dei risultati per il prossimo Workshop on HIV Persistence, Reservoirs and Eradication Strategies, che si terrà a Miami nel dicembre 2015.
Mark Weinberg sul dolutegravir ha lavorato e scritto moltissimo e in modo estremamente specialistico ma, per cercare di capire meglio l'idea da cui parte il Protocollo Zero, ho letto un suo articolo pubblicato su Retrovirology l’anno scorso – Viral fitness cost prevents HIV-1 from evading dolutegravir drug pressure – ed una opinione dedicata proprio a descrivere questa strategia, che Wainberg ha scritto su BMC Medicine in occasione della giornata mondiale dedicata all'AIDS lo scorso 1 dicembre: What if HIV were unable to develop resistance against a new therapeutic agent?
In breve, dalla diverse sperimentazioni cliniche di confronto fra il dolutegravir – che è stato approvato nei mesi scorsi per la commercializzazione negli Stati Uniti e in Europa, non ancora in Italia – e gli altri due inibitori dell’integrasi, raltegravir e elvitegravir, è emerso che mentre i due farmaci di prima generazione sono suscettibili di fallimento virologico a causa dell’emergere di mutazioni resistenti nella sequenza che codifica per l’enzima integrasi, nei pazienti naive che sono stati trattati con dolutegravir non si sono viste mutazioni importanti.
Invece in vitro, usando del virus HIV-1 di ceppo B, sono state selezionate due mutazioni – la R263K e la H51Y – che hanno rivelato una natura assai particolare (ad altri sottotipi di HIV non si fa cenno, quindi immagino non siano stati studiati).
Tipicamente, lo svilupparsi di resistenze che riguardano gli inibitori dell’integrasi di prima generazione, ma anche altre classi di farmaci come alcuni IP e alcuni NRTI, segue un modello che è documentato anche nel caso di batteri resistenti agli antibiotici o di altri virus resistenti agli antivirali e che può essere descritto così:
- la prima mutazione dà un livello minimo di resistenza al farmaco, che si accompagna con la perdita di attività enzimatica (cioè con una ridotta attività per esempio dell’integrasi), così come con una diminuzione della capacità del virus di replicarsi. Invece, l’emergere di mutazioni secondarie o terziarie tende ad essere compensatorio e a restaurare, in parte o del tutto, sia la funzionalità degli enzimi, sia la fitness del virus, aumentando al contempo il livello generale di resistenza del virus al farmaco.
Wainberg ha invece dimostrato che la mutazione H51Y, che da sola è sostanzialmente innocua, in combinazione con R263K aumenta la resistenza al dolutegravir più di quella conferita al virus dalla sola mutazione R263K, ma crea comunque una resistenza di basso livello, e però si accompagna con un’enorme diminuzione
- • dell’attività enzimatica dell’integrasi,
• della fitness replicativa del virus e soprattutto
• della capacità dell’HIV DNA di integrarsi nel genoma della cellula ospite.
Queste osservazioni potrebbero spiegare l’assenza di mutazioni resistenti al farmaco nei pazienti naive trattati con dolutegravir, nel senso che i virus che possiedono entrambe le mutazioni potrebbero replicarsi così poco da non riuscire ad essere rilevati mediante i test standard usati per valutare la resistenza ai farmaci negli studi clinici.
Wainberg spiega di avere continuato a studiare per quasi tre anni il dolutegravir in colture di tessuti e di non essere riuscito a identificare alcuna mutazione potenzialmente compensatoria, che possa rendere di nuovo funzionale l’integrasi nello stesso momento in cui aumenta i livelli di resistenza al dolutegravir al di sopra di quelli causati dalla combinazione delle due mutazioni R263K e H51Y.
Questo può dipendere dalla bassa capacità di replicazione dei virus che contengono le due mutazioni, o dal cattivo funzionamento dell’integrasi, o da entrambe le caratteristiche di questi virus.

Wainberg ammette che per avere una conferma definitiva di questi risultati è necessario che il dolutegravir venga utilizzato estesamente all’interno di terapie di prima linea, soprattutto al di fuori dei trial clinici, in contesti in cui la necessità dell’aderenza ai trattamenti possa essere percepita in modo meno chiaro dai pazienti. Ritiene, tuttavia, che se questi risultati ricevessero ulteriori validazioni, si dovrebbe esplorare la possibilità che la combinazione delle mutazioni R263K e H51Y – magari in combinazione con altre strategie – sia in grado di ridurre, o addirittura impedire, nuovi cicli di integrazione dell’HIV DNA entro le cellule dell'ospite. E aggiunge che sta studiando la cosa nelle scimmie e che pure i topi potrebbero fornire un utile modello.
Queste cose le scriveva nel febbraio del 2013 e sottolineava un aspetto su cui era necessario porre attenzione: il fatto che certi virus non riescano ad integrarsi non abolisce il problema dei reservoir di HIV che si sono creati prima del trattamento con dolutegravir.
Lanciava però allora l’idea che se si sospendessero tutti i farmaci antiretrovirali da persone in ART si potrebbe verificare un’attivazione di virus latenti nei reservoir. In questa situazione, i virus che non riescono ad integrarsi in modo efficace perché in loro l’integrasi non funziona bene potrebbero non essere capaci di ripopolare i reservoir. Quindi diversi cicli di terapia/sospensione potrebbero, nel tempo, diminuire le dimensioni dei reservoir.
Alla fine del 2013 - pubblicando in occasione del I dicembre What if HIV were unable to develop resistance against a new therapeutic agent? - la strategia di Wainberg era stata abbozzata.
Anzitutto, il dolutegravir potrebbe essere usato nei protocolli di TasP (Treatment as Prevention), in cui ci si può attendere che le riduzioni delle viremie a livello di popolazione comportino la diminuzione dei tassi di trasmissione dell’HIV, così dando una risposta al timore che si possano creare resistenze ai farmaci usati in questi protocolli.
L’idea di Wainberg è infatti che potremmo scoprire che i virus che sono resistenti al dolutegravir non possono essere compensati da ulteriori mutazioni entro l’integrasi e sono dunque gravemente svantaggiati nella replicazione rispetto ai virus wild type. Questo acquisterebbe ancora maggiore importanza se si confermasse quanto visto nei trial clinici che hanno portato all’approvazione del farmaco: e cioè che il dolutegravir riesce a conservare un’attività antivirale significativa pur in presenza di virus che hanno una o due mutazioni che li rendono resistenti.
Anzi, l’ipotesi di Wainberg è che lo sviluppo di resistenze contro il dolutegravir possa dare un beneficio unico, sia a livello virologico, sia a livello clinico.
Ecco quindi la proposta di STUDIARE IL DOLUTEGRAVIR DATO IN MONOTERAPIA A PAZIENTI NAIVE: si dovesse scoprire che i risultati ottenuti sono simili a quelli osservati nei trial di fase III che hanno portato all’approvazione del farmaco, si avrebbe una conferma parziale dell’ipotesi sull’assenza di resistenze spiegata sopra.
Wainberg, nell’articolo del dicembre scorso, sembrava consapevole che un trial del genere potrebbe far arricciare il naso ai comitati etici. Si affrettava infatti a sottolineare come un simile studio di monoterapia “dovrebbe essere accompagnato da intenso monitoraggio virologico delle mutazioni che conferiscono resistenza, che dovrebbe includere l’uso di metodi di sequenziamento ultrasensibili per identificare mutazioni resistenti al dolutegravir sia nell’RNA dei campioni di plasma dei pazienti, sia nel DNA delle cellule mononucleate del sangue periferico”.
Un altro problema non di poco conto è che a un certo punto sarebbe necessario interrompere la terapia e vedere se i virus danneggiati, quelli che contengono mutazioni resistenti al dolutegravir, sono capaci o no di emergere. Che ne sarebbe dei virus wild type archiviati nei reservoir? Presumibilmente, una gran parte di loro inizierebbe a replicarsi a seguito dell’attivazione dei reservoir, come si vede in genere nei trial sulle interruzioni terapeutiche. Tuttavia, ricominciare con dolutegravir in monoterapia potrebbe trasformare questi virus wild type in deboli virus resistenti al dolutegravir.
Insomma, la speranza è che dopo un certo numero di stop and go tutto il virus presente si trasformi in un virus attenuato, che fa una gran fatica a replicarsi e in cui non si sviluppano mutazioni compensatorie.
Da qui alla cura funzionale il passo sarebbe breve.
EDIT: ho cambiato titolo del thread.