COVID-19: la ricerca di una cura

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » mercoledì 29 aprile 2020, 15:59

REMDESIVIR: studio SIMPLE

Gilead oggi ha annunciato che i risultati del trial di fase III denominato SIMPLE sono positivi: è uno studio multicentrico, randomizzato ma in aperto, su 397 pazienti con COVID-19 ricoverati in ospedale, in cui si confronta un regime di somministrazione del remdesivir per 5 giorni con un regime di somministrazione per 10 giorni e, secondo quanto dice il comunicato stampa, avrebbe dimostrato che:

1. i pazienti trattati per 10 giorni hanno ottenuto gli stessi miglioramenti clinici dei pazienti trattati per 5 giorni;
2. in nessuno dei due gruppi si sono evidenziati nuovi problemi di sicurezza.

Il tempo di miglioramento clinico per il 50% dei pazienti è stato di 10 giorni nel gruppo di trattamento di 5 giorni e di 11 giorni nel gruppo di trattamento di 10 giorni. Più della metà dei pazienti di entrambi i gruppi sono stati dimessi entro il 14° giorno. Al 14° giorno, il 64,5% dei pazienti nel gruppo di trattamento di 5 giorni (129 su 200) e il 53,8% dei pazienti nel gruppo di trattamento di 10 giorni (106 su 197) ha raggiunto la guarigione clinica.
Gli esiti clinici sono stati variabili a seconda della provenienza geografica. Al di fuori dell'Italia, il tasso di mortalità complessiva al 14° giorno è stato del 7% (23 su 320) in entrambi i gruppi di trattamento, con il 64% dei pazienti (205 su 320) che hanno avuto un miglioramento clinico al 14° giorno e il 61% dei pazienti (196 su 320) dimessi dall'ospedale.

In un'analisi esplorativa, i pazienti che hanno iniziato a prendere il farmaco entro 10 giorni dall'insorgenza dei sintomi hanno avuto maggiori miglioramenti rispetto a quelli che hanno iniziato più tardi.

Immagine

In un altro breve comunicato Gilead afferma che questi risultati integrano quelli dello studio che sta conducendo il NIAID di Fauci (che è un trial randomizzato e con placebo) e di cui saranno presto resi noti i dettagli in un briefing.
Quanto presto? Si diceva entro maggio, ma magari arriveranno chissà quante altre anticipazioni.
Quanto sono buoni questi dati? Come viene quantificato il miglioramento clinico? Quanto male stavano i pazienti? Dobbiamo aspettare il briefing del NIAID, perché l'assenza di gruppo di controllo dello studio SIMPLE non permette di capire la reale efficacia del trattamento.

L'unica cosa che si può capire al momento è che trattare per 5 o 10 giorni non fa differenza.

Intanto, a metà mattina le azioni di Gilead sono salite del 3%.



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » mercoledì 29 aprile 2020, 20:49

REMDESIVIR: studio ACTT
Dora ha scritto:
mercoledì 29 aprile 2020, 15:59
In un altro breve comunicato Gilead afferma che questi risultati integrano quelli dello studio che sta conducendo il NIAID di Fauci (che è un trial randomizzato e con placebo) e di cui saranno presto resi noti i dettagli in un briefing.
Quanto presto? Si diceva entro maggio, ma magari arriveranno chissà quante altre anticipazioni.
Molto presto! In effetti, è di un paio d'ore fa un comunicato stampa del NIAID, in cui si dice che sono disponibili dei risultati ad interim dello studio ACTT - Adaptive COVID-19 Treatment Trial: la revisione dei dati mostrerebbe che il remdesivir è meglio del placebo dal punto di vista dell'obiettivo principale della sperimentazione - il tempo di ripresa (definita come "stare abbastanza bene per essere dimessi dall'ospedale o tornare a un normale livello di attività").

Questi risultati preliminari indicherebbero che i pazienti del gruppo del remdesivir hanno avuto tempi di ripresa del 31% più rapidi di quelli del gruppo del placebo (p<0.001): tempo mediano di 11 giorni per i primi, di 15 per i secondi.
I dati ad interim suggerirebbero anche un beneficio in termini di sopravvivenza, con un tasso di mortalità dell'8% nel gruppo del remdesivir e dell'11,6% nel gruppo del placebo (p=0.059).

Per ora, altro non si dice. Seguirà un report.

Il New York Times sostiene che l'FDA ha in programma di annunciare (oggi, presumibilmente) una "Emergency Use Authorization" per il remdesivir, che in sostanza, in una situazione di minaccia nucleare, biologica o chimica e in assenza di "alternative adeguate, approvate e disponibili", permette l'uso in emergenza di un farmaco non approvato.
Insomma, non è una piena approvazione, ma una approvazione di emergenza, in mancanza di meglio.

Durante un incontro con la stampa alla Casa Bianca, Fauci ha detto di essere ottimista e che i dati sul remdesivir sono significativi e positivi, anche se devono ancora passare una peer review: "data shows that remdesivir has a clear-cut significant positive effect in diminishing the time to recover".
A quanto pare, il remdesivir si appresta a diventare lo standard of care per trattare la COVID-19.

Immagine



Ehm ... i cinesi sul Lancet la pensano diversamente:

Remdesivir in adults with severe COVID-19: a randomised, double-blind, placebo-controlled, multicentre trial

ed è un trial randomizzato, in doppio cieco e con placebo e l'articolo ha passato la peer review sul Lancet. Ma sono cinesi e non il NIAID, naturalmente, quindi il remdesivir viene definito "standard of care" prima ancora dell'approvazione da parte dell'FDA.

L'irritualità regna sulla pandemia.



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » giovedì 30 aprile 2020, 15:09

Dora ha scritto:
mercoledì 29 aprile 2020, 20:49
Ehm ... i cinesi sul Lancet la pensano diversamente:

Remdesivir in adults with severe COVID-19: a randomised, double-blind, placebo-controlled, multicentre trial

ed è un trial randomizzato, in doppio cieco e con placebo e l'articolo ha passato la peer review sul Lancet. Ma sono cinesi e non il NIAID, naturalmente, quindi il remdesivir viene definito "standard of care" prima ancora dell'approvazione da parte dell'FDA.

L'irritualità regna sulla pandemia.

REMDESIVIR: il trial cinese sul Lancet - randomizzato, in doppio cieco e con placebo, e ciò nonostante un brutto studio

Lo studio uscito ieri sul Lancet - con un titolo per certi versi ingannevole, perché come riconoscono gli autori stessi i malati non avevano COVID-19 davvero grave - è in controtendenza rispetto ai comunicati stampa di Gilead e alle fughe in avanti di Fauci, poiché mostra, sì, qualche timida possibilità di un effetto benefico del remdesivir, ma non significativa, e soprattutto fallisce l'endpoint principale della sperimentazione.

Vediamo in che senso questi risultati cinesi sono poco commoventi e impongono, una volta di più, la necessità di attendere dei dati attendibili per capire se il remdesivir sia efficace e quanto.

Il trial è stato condotto in 10 ospedali del distretto di Hubei tra febbraio e marzo di quest'anno.
Dovevano essere arruolati 453 pazienti, ma la sperimentazione è stata fermata prima, a 237, a causa dell'assenza di pazienti che corrispondessero ai criteri di arruolamento: ammissione in ospedale con infezione da SARS-CoV-2 confermata da test e entro 12 giorni dall'insorgenza dei sintomi, con saturazione dell'ossigeno del 94% o meno, con polmonite confermata da radiografia.
Le ragioni di interruzione del trial sono dunque state o che era diminuito il numero di pazienti che si presentavano in ospedale perché l'epidemia in Hubei si stava esaurendo, o che i pazienti ospedalizzati erano in una fase più avanzata della malattia.
Il grande limite di questo studio, pertanto, è che è sottodimensionato (potenza statistica diminuita dall'80 al 58%) e che i suoi risultati forniscono dei dati che somigliano un po' troppo ad aneddoti.

I partecipanti sono stati randomizzati 2:1 così da ricevere infusioni di remdesivir (200 mg il primo giorno, seguiti da 100 mg nei giorni da 2 a 10) o di placebo. Indipendentemente dal gruppo in cui il caso li ha fatti finire, i pazienti hanno potuto assumere, insieme al remdesivir o al placebo, anche lopinavir/r, interferone, antibiotici o corticosteroidi.
Questo mi pare un altro limite, perché rende di fatto impossibile capire quale effetto abbiano avuto i singoli trattamenti.

Il primo endpoint era la valutazione del tempo che i pazienti ci mettevano a migliorare in 28 giorni secondo una scala che andava da 1 = dimissioni dall'ospedale a 6 = morte o, in alternativa, alla dimissione dall'ospedale.
L'ampiezza dei gradini di questa scala non è costante e c'è anche ampio spazio per la discrezionalità dei medici: non c'è bias perché lo studio è in cieco, ma non si può escludere che la discrezionalità insita in questa scala di valutazione interferisca con il valore dei tempi di ripresa.

Anche la composizione dei due gruppi non è sovrapponibile, sia perché ad esempio il gruppo remdesivir comprendeva percentualmente più donne rispetto al gruppo placebo (e sappiamo che l'outcome nelle donne è migliore); sia perché il gruppo remdesivir conteneva più persone con ipertensione, diabete, disturbi coronarici, ma anche una percentuale più bassa di persone intubate; sia perché il gruppo di controllo conteneva più persone che erano state sintomatiche per 10 giorni o meno.
In ogni caso, approssimativamente la stessa proporzione di pazienti (82 vs 83%) era nel gradino 3 della scala (ospedalizzazione con necessità di somministrazione di ossigeno): di persone davvero gravi, in questo trial, ce n'era solo una ed era nel gruppo placebo.
La mediana del tempo intercorso fra l'inizio dei sintomi e i trattamenti è stata di 10 giorni per entrambi i gruppi, quindi una somministrazione abbastanza precoce del remdesivir, ma non precocissima, quasi una PEP, come nello studio degli NIH sulle scimmie.

Immagine

Immagine

In breve, l'uso di remdesivir non è risultato associato a una differenza nel tempo di miglioramento clinico. Inoltre, poiché il trial è stato interrotto prima del tempo, non è stato possibile stabilire se un trattamento più precoce avrebbe fornito un maggiore beneficio clinico; tuttavia, tra i pazienti trattati entro 10 giorni dall'insorgenza dei sintomi, anche se non c'è nessun dato statisticamente significativo, c'è però una leggera riduzione del tempo mediano di miglioramento clinico.
I tassi di mortalità sono stati simili nei due gruppi (14 vs 13%).

Immagine

Le viremie, misurate sia nelle alte, sia nelle basse vie respiratorie, hanno avuto il medesimo andamento nel gruppo del farmaco e in quello del placebo - che è ben strano, dal momento che il remdesivir è un antivirale.
Ora, io non conosco approfonditamente le dinamiche delle viremie dei virus che colpiscono il sistema respiratorio, che possono comunque sparire abbastanza in fretta anche senza trattamenti; devo però ammettere che, abituata a vedere il crollo quasi verticale dei livelli di HIV RNA (o anche HCV RNA) dopo pochi giorni di somministrazione di antiretrovirali (perfino in monoterapia, perfino i più scrausi), che sia in persone trattate in fase acuta o in persone con infezione cronica, vedere queste curve mi fa davvero un effetto miserrimo. E naturalmente mi fa tornare alla memoria le 6 scimmie di cui abbiamo parlato una decina di giorni fa.

Immagine

Gli eventi avversi riportati sono stati nel 66% del gruppo remdesivir e 64% nel gruppo placebo. Ma anche qui: vai a sapere se si devono attribuire al remdesivir, al Kaletra, all'interferone, agli steroidi ... In ogni caso, il remdesivir ha dovuto essere sospeso nel 12% dei pazienti (il placebo nel 5%)

Immagine

In un commento che accompagna la pubblicazione su Lancet di questo lavoro francamente bruttino, John David Norrie, un medico della Edinburgh Clinical Trials Unit, dice che lo studio non ci offre dei risultati statisticamente significativi che confermino che il remdesivir dia un beneficio clinico, o faccia almeno una piccolissima differenza. D'altra parte, neppure permette di escludere che qualche beneficio lo dia.
Siamo pieni di trial incompleti, sottodimensionati, di cattiva qualità. Servono dati da sperimentazioni decorose, decentemente impostate, terminate nei tempi previsti dai protocolli e senza cambiare in corsa gli endpoint.

Ah, avercele!
In compenso, siamo sommersi da mosse e decisioni irrituali. Cose che in tempi di vita e di scienza normale perfino scienziati di bocca buona si rifiuterebbero di ingoiare.

Ma confidiamo in Fauci e nell'OMS. E naturalmente nella specchiata onestà di Gilead.



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » sabato 2 maggio 2020, 8:36

Immagine


Considerazioni di una disfattista ignorante (da mettere subito al rogo, al rogo!)

Quando i Torquemada del metodo scientifico, quelli sempre pronti ad affibbiare patenti autocertificazioni di scientificità e condanne per ciarlataneria, quelli per cui Raoult è un delinquente e Fauci invece un santo, gioiscono per il remdesivir - che, come previsto, ha ricevuto ieri dall'FDA una Emergency Use Authorization - esattamente perché lo fanno?
Per il pre-print degli NIH sulle 6 scimmie, in cui i macachi con un'infezione non grave - come da modello - hanno ricevuto una sorta di profilassi post esposizione impossibile da replicarsi nell'uomo con un farmaco che deve essere somministrato in ospedale, in cui si è scelto di intervenire prima che i livelli di viremia nei polmoni diventassero troppo alti e ciò nonostante la viremia è sempre rimasta presente nelle vie aeree superiori, in cui con un artificio furbetto sono stati sovrastimati i dati preparando il terreno per future spiacevoli sorprese nella forma di mancate replicazioni?
O per l'articolo di Gilead sul New England Journal of Medicine, in cui l'uso compassionevole del farmaco su un piccolo numero di persone, senza gruppo di controllo e con una serie interminabile di bias ha dato luogo a risultati abbastanza pietosi?
Oppure gioiscono perché, nella guerra di Fauci contro Trump, il remdesivir si è guadagnato l'approvazione di emergenza e lo status di standard of care, che lo mette al riparo da future sperimentazioni con placebo, sulla base di leak, pettegolezzi, comunicati stampa, dichiarazioni di Fauci alla stampa seduto su un divanetto alla Casa Bianca, in totale assenza di articoli peer reviewed, ma con modifica delle dimensioni dei campioni e degli endpoint a trial quasi conclusi, scale di valutazione degli endpoint che lasciano enormi varchi all'arbitrarietà nell'interpretazione, differenze nella mortalità che non sono statisticamente significative neppure nelle dichiarazioni, risultati di un trial randomizzato cinese che dicono il contrario di quello che Gilead vuole sentire, messi a tacere per la gioia degli azionisti Gilead proprio nel giorno in cui vengono pubblicati su Lancet ... e in tutto questo, l'unica volta in cui si vedono delle viremie nell'uomo, una desolante indistinguibilità dal placebo?
Quelli che vedono in questa sorta di nuovo Tamiflu una ragione di ottimismo per cui iniziare la giornata con uno spirito da spezzeremo le reni al coronavirus e chi non è contento è un disfattista con cui faremo i conti a guerra finita (e cara grazia che non pretendono un plotone di esecuzione qui, sui due piedi) verranno ancora a dare lezioni a ditino alzato su che cosa è Scienza e che cosa pseudoscienza?
Con questi effetti sulle viremie di un virus che, se non ti ammazza, si eradica da solo?!

Immagine

Dal momento che, come ho scritto l'altro giorno, non ho mai studiato le dinamiche delle viremie di virus respiratori e mi ha però molto colpito l'andamento delle viremie nelle persone dello studio cinese trattate con remdesivir, così sovrapponibile a quello del placebo, ho provato a confrontare quelle tristissime figure del lavoro su Lancet con un modello che stima l'effetto dell'idrossiclorochina sull'RNA del SARS-CoV-2 che si trova in un articolo messo online su MedRxiv da Savarino pochi giorni fa - ricordo che è un pre-print e non è dunque ancora stato pubblicato:

Pharmacokinetic bases of the hydroxychloroquine response in COVID-19: implications for therapy and prevention

Ricordo anche che, mentre il remdesivir è un antivirale, quindi il suo primo obiettivo è bloccare la replicazione del virus e cioè far calare il livello della viremia il più rapidamente possibile, la clorochina esercita effetti antivirali solo come risultato secondario, perché agisce principalmente sullo stato infiammatorio e sulle risposte cellulo-mediate contro le cellule infettate da SARS-CoV-2. Savarino usa un modello per simulare l'interazione fra virus e ospite e le possibili risposte alla somministrazione di clorochina/idrossiclorochina e poi li compara ai risultati che emergono dalle sperimentazioni cliniche.
Senza tediare nessuno con i dettagli tecnici, che ciascuno può andarsi a vedere direttamente nel paper, l'impatto della clorochina sull'ampiezza della viremia è profondo solo se la viremia non è troppo alta, su viremie corrispondenti a decine e non centinaia di migliaia di copie di RNA/mL. Si tratta comunque di viremie tipicamente rilevate dai tamponi nelle fasi non troppo avanzate dell'infezione.
Come sempre nel caso di infezioni virali, gli interventi sulle viremie sono più efficaci quando sono tempestivi.
Quanto può essere tempestivo il trattamento con un farmaco che si somministra per infusione in ospedale?

Per capire la necessità di trattare il più in fretta possibile le persone con COVID-19, trovo molto utile questo schema, tratto da un articolo di ricercatori di Harvard sul Journal of Heart and Lung Transplantation in cui si propone una stadiazione dell'infezione da SARS-CoV-2 e dei possibili interventi terapeutici:

Immagine


E adesso andiamo tutti a festeggiare, ché con il remdesivir siamo in una botte di ferro.



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » martedì 5 maggio 2020, 7:25

Immagine


ANTICORPI, IMMUNIZZAZIONE PASSIVA: UN'ALTRA STRATEGIA CONTRO COVID-19

Tanto si parla - in questi giorni sui giornali, ma da mesi nei siti che riportano notizie mediche e scientifiche (anche italiani) - dell'immunizzazione passiva dei malati di COVID-19 con gli anticorpi estratti dal sangue dei guariti: per quanto anche qui siamo sempre a livello di aneddoti, questa strategia vecchia più di un secolo e usata in tante altre infezioni, ad esempio per dimezzare la mortalità della Spagnola, ma anche, con buoni risultati, durante l'epidemia di SARS nel 2002-2003, sembra una via possibile per curare persone in condizioni gravi.

Già a febbraio, autori cinesi discutevano su Lancet Infectious Diseases delle potenzialità di questa terapia per i malati di COVID-19.
A fine marzo, accompagnati da un editoriale che soppesava le possibilità e le sfide connesse alla terapia, altri ricercatori cinesi hanno pubblicato su JAMA i risultati preliminari di uno studio su 5 pazienti molto gravi, che hanno tratto grande beneficio da una trasfusione di anticorpi. Di lì si sono moltiplicati i racconti di persone trattate con immunizzazione passiva: altri 19 pazienti cinesi sono finiti sul Journal of Infectious Diseases e da loro si è imparato che, anche se il plasma iperimmune dei guariti permette di abbattere la viremia nelle persone che lo ricevono, non ne riduce la mortalità se queste sono in condizioni davvero gravi, quindi deve essere trasfuso prima che si arrivi in quelle condizioni.
Di altri 19 malati cinesi si raccontava ad inizio aprile sui PNAS: qui pareva che avesse funzionato anche su casi molto gravi.

C'è un pre-print di ricercatori italiani, inglesi americani, che gira da inizio aprile. Ora è giunto alla sua quinta versione, non so se arriverà a una forma definitiva, ma è comunque utile per farsi un'idea su questa terapia in persone con infezioni respiratorie: Convalescent Plasma Therapy for Covid-19: State of the Art.

Un aspetto che rende la cura con plasma iperimmune ancora più attraente è che non sono stati segnalati finora effetti collaterali di rilievo, per quanto la trasfusione di plasma in sé possa creare squilibri nel processo di coagulazione, che sappiamo già poter essere in vario grado compromesso nei pazienti COVID-19.

Per quanto promettente, questa è però una via che si scontra con le grandi difficoltà di identificare i donatori che non trasmettano con il loro sangue altre infezioni, prelevare il plasma, isolare gli anticorpi, raggiungere quantità terapeuticamente efficaci di questi anticorpi e somministrarli. Un donatore non può donare il suo plasma troppo spesso e con una donazione si possono trattare non più di una o due persone. È evidente che questo tipo di terapia non può essere esteso a un gran numero di malati.

Più che seguire questa strada tortuosa, c'è l'alternativa degli anticorpi monoclonali, cioè la possibilità di identificare gli anticorpi meglio adatti allo scopo e produrli in laboratorio. Molte aziende biotech sono al lavoro da mesi e penso che vedremo presto i risultati di tanto lavoro.

Il post di oggi è dedicato a due notizie, una solidamente pubblicata ieri su Nature Communications, l'altra per ora solo sui quotidiani israeliani.
Partiamo dalla notizia più solida.
A human monoclonal antibody blocking SARS-CoV-2 infection è un articolo di ricercatori delle Università di Rotterdam e di Utrecht, che raccontano la scoperta di un anticorpo in grado di neutralizzare in vitro il virus SARS-CoV-2 nelle cellule messe a coltura.
Gli olandesi avevano già lavorato su anticorpi contro SARS-CoV nel 2002-2003 e, nell'ampia collezione che avevano creato allora, hanno identificato un anticorpo che è umano (il che rende i suoi potenziali effetti collaterali di gran lunga minori rispetto a quelli di animali che vengono umanizzati) e che neutralizza non solo SARS-CoV-1, ma anche SARS-CoV-2, poiché si lega a un dominio della glicoproteina spike che il virus usa per penetrare nelle cellule e che è conservato in entrambi questi coronavirus.
Ora i ricercatori dovranno caratterizzarlo per bene, in particolare dovranno capire il meccanismo attraverso il quale agisce, che è diverso dall'interferenza nell'affinità recettoriale, che è tipica degli anticorpi che neutralizzano i coronavirus e che rende questi anticorpi specifici per un singolo coronavirus, ma già sanno che l'anticorpo 47D11 ha in vitro una potente attività inibitoria.
Se si troveranno altri anticorpi, con meccanismi d'azione diversi e complementari, che agiscono contro epitopi differenti del SARS-CoV-2, si aprirà la possibilità di terapie di combinazione, che sfruttino le sinergie, diminuiscano il rischio dello sviluppo di varianti di escape, capaci di sfuggire all'azione degli anticorpi, e possano essere usate a dosaggi più bassi, che diminuiscano il carico delle tossicità.
Naturalmente, un anticorpo come 47D11, usato da solo o in combinazione con altri, può servire sia per l'immunizzazione passiva e dunque la cura di persone con COVID-19, sia per l'immunizzazione attiva e dunque un vaccino che prevenga l'infezione.

Immagine


La seconda notizia, questa volta solo da fonti giornalistiche, riporta le dichiarazioni del ministro della difesa israeliano Naftali Bennett, che ha visitato ieri i laboratori dell'Israel Institute for Biological Research, gli stessi dove si sta sviluppando anche un vaccino preventivo, e ha raccontato che i ricercatori dell'IIRB hanno completato lo sviluppo di un anticorpo monoclonale capace di neutralizzare SARS-CoV-2.
Questo anticorpo è ancora in attesa di brevetto, quindi per adesso non si sa altro.



EDIT 6 maggio - L'IIRB ha confermato quanto dichiarato da Bennett: stanno sviluppando e brevettando un anticorpo non per creare un vacino, ma per trattare i malati di COVID-19. L'anticorpo per il momento è stato testato soltanto in vitro, quindi ci vorranno mesi perché dagli studi su animali si arrivi poi a sperimentarlo nell'uomo. L'anticorpo ha tre caratteristiche che lo rendono - per quanto a conoscenza dei ricercatori dell'IIRB - unico:
  • - è in grado di distruggere SARS-CoV-2;
    - è specifico contro SARS-CoV-2;
    - è monoclonale, privo di ulteriori proteine che possano causare tossicità all'uomo.



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » mercoledì 13 maggio 2020, 8:18

Immagine


La combinazione di lopinavir/ritonavir, ribavirina e interferone β-1b è più efficace dei soli lopinavir e ritonavir per abbattere le viremie e alleviare i sintomi in persone con COVID-19 di gravità leggera-moderata

Un lavoro di ricercatori di Hong Kong pubblicato la settimana scorsa sul Lancet -

Triple combination of interferon beta-1b, lopinavir–ritonavir, and ribavirin in the treatment of patients admitted to hospital with COVID-19: an open-label, randomised, phase 2 trial -

racconta di una sperimentazione clinica che, pur con qualche limitazione, è stata finalmente fatta come si deve: un trial di fase II multicentrico, prospettico, randomizzato per quanto in aperto, in adulti ospedalizzati con infezione da SARS-CoV-2 di entità da lieve a moderata, di confronto fra la somministrazione dei soli inibitori della proteasi di HIV lopinavir e ritonavir vs la somministrazione di una terapia di combinazione, basata su lopinavir/r, ribavirina (usata nel vecchio trattamento dell'epatite C) e interferone β-1b (che si usa per trattare la sclerosi multipla).

L'idea, mutuata dall'esperienza con diverse infezioni virali e in particolare con l'influenza, era che sia meglio usare combinazioni di farmaci invece che uno solo, e che sia meglio iniziare presto i trattamenti invece di aspettare che l'infezione sia troppo avanzata, le viremie troppo alte per degli antivirali che hanno efficacia modesta, e lo stato infiammatorio troppo grave.
La decisione di usare questa specifica combinazione si è basata sull'esperienza che questo gruppo di ricerca ha fatto ai tempi della SARS e sugli studi in vitro e su modelli animali, che hanno mostrato un certo, seppur non elevato, effetto antivirale dei farmaci scelti.

L'obiettivo principale dello studio era il tempo necessario per negativizzare la viremia nei tamponi nasofaringei, mentre obiettivi secondari erano, oltre alla negativizzazione dei tamponi salivari, il tempo di miglioramento clinico, il tempo di ospedalizzazione, la valutazione degli eventi avversi durante il trattamento, la mortalità e i cambiamenti nei livelli di citochine e chemochine.

Tra il 10 febbraio e il 20 marzo sono stati reclutati 127 pazienti in 6 diversi ospedali di Hong Kong e sono stati randomizzati 2 a 1: 87 nel gruppo del trattamento di combinazione, 41 nel gruppo di controllo.
Per 14 giorni i pazienti hanno ricevuto o solo lopinavir/r due volte al giorno, o lopinavir/r ogni 12 ore più 400 mg di ribavirina ogni 12 ore più iniezioni sottocutanee di interferone β-1b un giorno sì e uno no.
La somministrazione dell'interferone non è stata omogenea, perché ha ricevuto il trattamento completo di 3 iniezioni solo chi è stato trattato a 1-2 giorni dall'insorgenza dei sintomi. Chi è stato trattato a 3-4 giorni ha ricevuto 2 iniezioni, chi a 5-6 ne ha ricevuta 1 e nessuna chi è stato arruolato a 7-14 giorni dall'inizio dei sintomi. La ragione sta nella necessità di evitare gli effetti infiammatori dell'interferone in persone che hanno un'infezione che, quando è più avanzata, di infiammazione ne causa già troppa.
Nessuno dei pazienti è morto e solo 1 (del gruppo di controllo) ha dovuto abbandonare lo studio a causa di un'epatite indotta dal Kaletra.
Gli effetti avversi, tutti di entità modesta e tutti risolti entro pochi giorni dalla fine del trattamento, sono stati prevalentemente diarrea, nausea e febbre, in qualche caso anche un aumento delle transaminasi (ALT).

Immagine

Nel gruppo del trattamento combinato le cose sono andate molto meglio che nel gruppo di controllo, sia per quanto riguarda l'obiettivo primario della durata delle viremie (7 giorni per la negativizzazione vs 12 giorni), sia per gli obiettivi secondari dei tempi di miglioramento dei sintomi (4 giorni vs 8) e di dimissione dall'ospedale (9 giorni vs 14,5), e dei livelli di interleuchina-6.
Inoltre, le riduzioni significative nella durata della positività alla RT-PCR e nella viremia sono risultate associate con i miglioramenti clinici, come si è potuto osservare nella riduzione significativa dei tempi di ripresa e di ospedalizzazione.
In un'analisi post-hoc per indagare gli effetti dei trattamenti in base al momento in cui sono stati cominciati, si è visto che i risultati clinici e virologici (tranne che nei campioni di feci) sono stati migliori nei pazienti che sono stati trattati prima, entro il 7° giorno dall'insorgenza dei sintomi.
Invece, non si sono viste differenze fra i pazienti trattati dopo il 7° giorno fra quelli che hanno ricevuto solo lopinavir/r e quelli che hanno ricevuto anche la ribavirina. Questo suggerisce che l'interferone β-1b sia stato la componente chiave del successo nel gruppo trattato con la terapia combinata.

Le conclusioni dei ricercatori sono che è opportuno fare un trial di fase III con l'interferone β-1b come base del trattamento.

Naturalmente, il fatto che questo studio abbia arruolato solo persone con COVID-19 di entità lieve-moderata non permette di fare inferenze sui risultati del trattamento combinato in pazienti con infezione più grave.


Immagine


P.S. In un articolo di Enrico Bucci sul Foglio di oggi si pone un dilemma che in molti si stanno ponendo e che ho cercato di mettere in evidenza più volte in queste settimane:

E’ meglio scommettere sull’efficacia di una terapia oggi o avere certezza per salvare molte più vite un domani?

La questione è serissima e di non ovvia soluzione: sappiamo bene qual è il "gold standard" della ricerca clinica, sappiamo che cosa ci vuole per avere risultati affidabili, come devono essere impostati i trial per non farci perdere tempo, che cosa dobbiamo evitare per non accumulare risultati illusori e non ripetibili. Sappiamo che gli aneddoti non sono dati. Ma possiamo permetterci di cercare il "gold standard" nel pieno di una pandemia che sta facendo morire centinaia di migliaia di persone?
La risposta di Bucci è

vanno bloccati studi maldisegnati, figli della fretta di avere un trial che, invece di migliorare le cose, aumentano la confusione: meglio un onesto clinico che segue il suo intuito, in attesa di tempi migliori, che uno studio disonesto, che fa apparire significativo un risultato irrilevante e fa perdere tempo e pazienti.

Sono d'accordo. In parte. È quello che ho ripetuto in questi mesi (con l'aggiunta che lo spirito da crociata che ha invaso i fautori del remdesivir e gli innamorati della clorochina ha intorbidito le acque rendendo tutto ancor più difficile).
Eppure una soluzione di compromesso fra l'affidarsi all'intuito dei clinici con la speranza che ci becchino o il lasciar morire persone aspettando i risultati dei trial fatti come metodo vuole c'è e lo studio di cui ho scritto oggi ce lo dimostra. Si possono fare studi ben impostati anche se non eccelsi, basandosi su un razionale che non è il meglio che si possa desiderare ma ha pur sempre un suo perché, sfruttando l'esperienza di epidemie passate causate da virus non troppo diversi e ottenendo dei risultati che hanno un senso e sui quali si può continuare a lavorare.
Ma il tifo da stadio, così come il fanatismo del metodo o l'entusiasmo per l'intuito clinico, è meglio lasciarli fuori da ospedali e laboratori.

*******************


EDIT 14 maggio - L'editoriale di Nature, ieri, potrei averlo scritto io dalla prima all'ultima parola :lol:

Coronavirus drugs trials must get bigger and more collaborative.



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » venerdì 15 maggio 2020, 7:43

Immagine


COVID-19: DISCOVERY, il rischio di un ennesimo fiasco europeo e A5395, un trial del NIAID tutto da scoprire

Lanciato in pompa magna dall'INSERM il 22 marzo scorso, lo studio DISCOVERY doveva essere la risposta europea al trial SOLIDARITY dell'OMS: prevedeva 5 bracci, uno in cui si somministra remdesivir, uno lopinavir/ritonavir, uno lopinavir/r più interferone β, uno idrossiclorochina e l'ultimo - il gruppo di controllo - una terapia di supporto per persone con infezione respiratoria.
Doveva essere una sperimentazione in grande, a detta della Commissione Europea la sola grande sperimentazione accademica in Europa per valutare antivirali contro COVID-19, con ben 3200 pazienti. Ma Spagna e Italia hanno deciso di aggregarsi al trial dell'OMS, il Regno Unito si è fatto il suo trial (Recovery), il Belgio si è chiamato fuori da tutto, mentre con Germania, Austria e Portogallo l'INSERM ora di inizio maggio non era ancora riuscito a trovare un accordo.
Sta di fatto che al 6 maggio un solo paziente era stato arruolato fuori dalla Francia, che ne doveva arruolare 800 e a inizio maggio era arrivata a 742, come ha raccontato durante un'audizione al Senato francese il 7 maggio l'immunologa Florence Ader.
I dati raccolti devono essere esaminati in momenti prestabiliti da un comitato indipendente, il Drug Safety Monitoring Board (DSMB), e addirittura il presidente Macron si è scomodato la settimana scorsa per annunciare che l'11 maggio il DSMB si sarebbe riunito e il 14, cioè ieri, avrebbe comunicato i risultati.
Le cose potevano andare in tre modi: con un segnale positivo, perché uno o più dei farmaci sperimentati si sta dimostrando efficace; con un segnale negativo, perché uno o più di questi farmaci non funziona o presenta delle tossicità inaccettabili; con nessun segnale, e in quel caso il DSMB avrebbe deciso che si doveva continuare. Invece, nei primi due casi il protocollo - uguale in questo a quello della sperimentazione dell'OMS - prevede che si chiuda il braccio del farmaco che non va o si spostino tutti i pazienti nel braccio del farmaco efficace.

Le valutazioni dell'ultimo incontro del DSMB, che ha potuto esaminare i dati di 700 pazienti tutti francesi, sono state che DISCOVERY deve continuare con tutti e 4 i suoi bracci, perché non si sono ravvisate tossicità di rilievo in nessuno dei farmaci, ma neppure si è dimostrata l'efficacia di qualcuno.

Il problema è che DISCOVERY ad oggi non ha raggiunto la potenza statistica necessaria a causa del troppo basso numero di partecipanti e quindi i suoi risultati per adesso non permettono di concludere nulla e la sua conclusione, di conseguenza, slitta a non si sa quando.
Presumibilimente a quando i litigiosi partner europei riusciranno a mettersi d'accordo.
Ma potrebbe anche essere che la difficoltà a trovare partecipanti, pur con le decine e centinaia di migliaia di persone che in questo momento sono malate di COVID-19 in Europa, dipenda dal fatto che i malati francesi, forse condizionati dall'endorsemente di Macron, pare vogliano l'idrossiclorochina e non altri farmaci, che non basti loro per accettare di partecipare la probabilità del 20% di finire nel braccio giusto e quindi rifiutino di essere arruolati. Cioè che accada in Europa quello che pare stia accadendo anche in altre parti del mondo, dove la guerra santa sembra aver prevalso sulla ricerca scientifica, finendo con il rallentare la ricerca.
D'altra parte, nel Regno Unito il trial RICOVERY, inventato in una notte pur di non partecipare alla sperimentazione dell'INSERM, ha reclutato 7000 persone letteralmente in un lampo, quindi può anche essere che addebitare le difficoltà di DISCOVERY alle preferenze dei malati per un farmaco a scapito degli altri sia una bugia pietosa che i francesi stanno raccontando a sé e al mondo per coprire qualche loro inefficienza.

Se è vera questa preferenza dei malati per l'idrossiclorochina, se è vero che l'opinione pubblica è manipolata da politici che hanno scelto un farmaco invece che un altro, non avrà probabilmente problemi a reclutare pazienti un trial annunciato ieri dagli NIH e il cui annuncio mi ha lasciata stupefatta: il NIAID, il dipartimento degli NIH su cui regna incontrastato da decenni Anthony Fauci, ha già iniziato un trial su ... rullo di tamburi ... idrossiclorochina e azitromicina!
La sperimentazione ACTG A5395, iscritta in ClinicalTrials.gov con il codice NCT04358068, è un trial che afferisce all'AIDS Clinical Trials Group, finanziato dal NIAID, quindi proprio cosa di proprietà di Fauci, ed è diretta da persone che normalmente si occupano di HIV (e arruolerà anche persone con coinfezione HIV-SARS-CoV-2).

È impostata come meglio non si potrebbe desiderare: randomizzata, in doppio cieco, controllata con placebo, su circa 2000 adulti di 60 anni o più, o più giovani ma con co-morbidità associate al rischio di sviluppare serie complicanze (disturbi cardiovascolari e diabete), sintomatici, ma con infezione da SARS-CoV-2 di entità da lieve a moderata, e ha l'obiettivo di capire se la somministrazione di idrossiclorochina o di azitromicina riesce a impedire l'ospedalizzazione e la morte di persone con COVID-19.
I partecipanti - eventualmente anche donne in gravidanza o in allattamento perché si sa che tollerano benissimo l'idrossiclorochina - saranno divisi 1 a 1 fra idrossiclorochina e placebo (400 mg 2 volte al giorno il primo giorno, 200 mg 2 volte al giorno per i successivi 6 giorni), e fra azitromicina e placebo (500 mg il primo giorno e 250 mg per altri 4 giorni).
Se ne resteranno a casa, saranno contattati per telefono dai ricercatori, prima molto spesso (nei giorni 2, 4, 6, 9, 13, e 17), poi all'inizio del 3° e del 6° mese, e dovranno riferire sintomi, aderenza al trattamento, eventi clinici importanti come l'eventuale ospedalizzazione. Per seguire meglio l'evolversi della terapia terranno un diario per 20 giorni.
Oltre a vedere se idrossiclorochina e azitromicina riescono a evitare che i malati di COVID-19 finiscano in ospedale e magari addirittura muoiano, questo studio si prefigge anche di valutare sicurezza e tollerabilità dei farmaci sperimentati, nel rispetto della richiesta precauzionale dell'FDA di usare l'idrossiclorochina nei malati di COVID-19 solo all'interno di sperimentazioni controllate.
I risultati sono attesi nei prossimi mesi, probabilmente in autunno.

Io sì, lo devo ammettere, da quando Fauci ha detto che l'idrossiclorochina è tossicissima, ha raccomandato di non usarla nei malati di COVID-19, e invece ha glissato sulle tossicità del remdesivir, diventando un novello Galileo e venendo adottato dal Remdesivir Fan Club come il Templare del Metodo Scientifico, mai mi sarei aspettata che facesse un trial come questo.
Eppur (qualcosa) si muove.
Forse è meno schierato di quanto i suoi fan amino pensare.
Forse è ancora più diplomatico di come abbiamo imparato a conoscerlo negli ultimi 30 anni.
Forse gli innamorati delusi diranno che lo fa per compiacere Trump e restare al suo posto (che significa: che ha venduto l'anima al diavolo).
Forse si stancheranno di lui e passeranno a idolatrare qualcun altro.


Ve l'ho mai detto che, ogni volta che sento nominare Galileo nel contesto di qualche crociata pro o contro la scienza, da qualunque delle fazioni questo accada, io sento sempre innalzarsi un disgustoso odore di roghi?



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » giovedì 21 maggio 2020, 7:19

Immagine


Auranofin inibisce la replicazione di SARS-CoV-2 e diminuisce l'infiammazione: un lavoro in vitro della Georgia State University

Mentre aspettiamo che il NIAID e Gilead rendano finalmente disponibili i dati completi sul remdesivir (sono passate tre settimane - TRE - e siamo ancora fermi al discorso con cui Fauci, dal divanetto della Casa Bianca, ha forzato la mano all'FDA), torniamo alla strategia di riposizionamento, che ha indotto decine di gruppi di ricerca a testare contro il nuovo e sconosciuto virus SARS-CoV-2 un numero enorme di molecole già note e approvate per trattare altre patologie.

E torniamo a una patologia, l'artrite reumatoide, che è stata generosa di farmaci da riposizionare in questa epidemia: dall'idrossiclorochina ad anakinra, dal sarilumab (Kevzara®) al tocilizumab (Actemra®), per le loro proprietà anti-infiammatorie sono tante le molecole studiate contro COVID-19 che hanno come loro prima indicazione il trattamento dell'artrite.
Del farmaco di oggi abbiamo molto parlato in questo thread: è l'auranofin. Il vecchio auranofin, che dall'indicazione iniziale per l'artrite reumatoide abbiamo visto ottenere i primi successi nella ricerca di una cura di HIV (come tantissimi altri, anche questo trial clinico è bloccato causa coronavirus).

È uscito in questi giorni su Virology un lavoro di ricercatori della Georgia State University di Atlanta che già ad aprile era stato pubblicato come pre-print su bioRxiv:

The FDA-approved gold drug auranofin inhibits novel coronavirus (SARS-COV-2) replication and attenuates inflammation in human cells

Il gruppo di ricerca guidato da Mukesh Kumar, virologo e immunologo esperto in infezioni virali (West Nile Virus, Zika, SARS-CoV-2), ha deciso di sperimentare l'auranofin contro il nuovo coronavirus, oltre che per la sua nota capacità di inibire lo stress ossidativo e l'apoptosi che ne deriva, anche per la sua capacità di ridurre la produzione di citochine infiammatorie, di stimolare l'immunità cellulo-mediata e di interferire con il segnale dell'IL-6 inibendo la fosforilazione di JAK1 e STAT3 (oltre all'inibitore dell'IL-6 tocilizumab, si stanno studiando contro l'infiammazione causata da SARS-CoV-2 altri farmaci che interferiscono con la via di segnalazione delle JAK/STAT - ad esempio ruxolitinib/Jakavi® o baricitinib).
Avere un farmaco che ha attività anti-virale e che agisce contemporaneamente sull'infiammazione e lo stress ossidativo causati dal SARS-CoV-2 può permettere di mitigare gli effetti più gravi di questa infezione: la polmonite e le disfunzioni d'organo multiple.

I ricercatori di Atlanta hanno pertanto sperimentato l'auranofin in vitro, su cellule umane infettate con dosi altissime di SARS-CoV-2 e hanno confrontato i risultati dopo 24 e 48 ore con cellule infette trattate con dimetilsolfossido (DMSO), un composto organico usato come solvente e che qui è stato utilizzato come controllo.
Il trattamento con auranofin ha comportato a 24 ore dall'infezione una riduzione del 70% dell'RNA virale nella coltura cellulare rispetto al DMSO, e a 48 ore una riduzione dell'85%. I livelli intracellulari di virus sono diminuiti in modo ancora più marcato: dell'85% a 24 ore e del 95% a 48. Insomma, in due giorni la quantità di virus all'interno delle cellule era praticamente sparita.
Kumar e colleghi hanno poi determinato la concentrazione di auranofin necessaria a inibire il 50% di replicazione virale (EC50): una dose micromolare (~ 1,4 μM). E sottolineano il fatto che hanno usato una quantità di virus per infettare le cellule che è superiore da 20 a 100 volte a quella usata negli studi in vitro su remdesivir e idrossiclorochina (quelli che hanno spinto l'OMS ha scegliere il remdesivir come il candidato più promettente contro COVID-19: EC50 = 0,77 μM).
L'ultimo passo è stato quello di valutare l'effetto dell'auranofin sulla risposta infiammatoria, misurando i livelli di alcune citochine chiave (IL-6, IL-1β, TNF-α, NF-kB) a 24 e 48 ore dall'infezione e confrontandoli sempre con il DMSO: anche sul fronte dell'infiammazione, l'effetto dell'auranofin è stato notevolissimo.

Quindi abbiamo un farmaco vecchio e molto ben conosciuto che - in vitro - inibisce la replicazione di SARS-CoV-2 a concentrazioni micromolari e riduce in modo significativo l'espressione di citochine infiammatorie indotte dall'infezione.
I ricercatori di Atlanta si apprestano a studiarlo in vivo, in qualche modello animale.

Speriamo però che, nel frattempo, l'auranofin non sia scoperto da Trump, o da Macron, o magari anche da Bolsonaro, e non finisca nel tritatutto della guerra di religione (*) che si è scatenata nel cuore della pandemia.


Immagine

Immagine

Immagine



(*) Mi sono imbattuta in qualcuno che la pensa come me, sulla faccenda della guerra di religione, solo che la chiama guerra tribale: Cailin O'Connor e James Owen Weatherall, sulla Boston Review - Hydroxychloroquine and the Political Polarization of Science. How a drug became an object lesson in political tribalism.
Una lettura affascinante, ma soffro di un chiarissimo confirmation bias.



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » domenica 24 maggio 2020, 6:50

Immagine


REMDESIVIR: pubblicati i risultati del trial ACTT

Dora ha scritto:
giovedì 21 maggio 2020, 7:19
Mentre aspettiamo che il NIAID e Gilead rendano finalmente disponibili i dati completi sul remdesivir (sono passate tre settimane - TRE - e siamo ancora fermi al discorso con cui Fauci, dal divanetto della Casa Bianca, ha forzato la mano all'FDA), torniamo alla strategia di riposizionamento [...]
Finalmente, venerdì, a quasi un mese dall'annuncio, sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati dello studio ACTT (Adaptive COVID-19 Treatment Trial):

Remdesivir for the Treatment of Covid-19 — Preliminary Report

Come sappiamo, il trial - di fase III, multicentrico, flessibile, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo - ha avuto una vita piuttosto travagliata, con cambiamenti degli endpoint quasi a fine corsa, le cui ragioni sono spiegate lungamente nell'articolo e si possono riassumere in: ci siamo trovati con malati che restavano malati molto più a lungo di quanto avessimo previsto (l'infezione è nuova, la conosciamo poco, etc. etc.).
Nella lunga parte dedicata a spiegare perché il protocollo è stato modificato a trial quasi concluso non si dice nulla della decisione di interromperlo prematuramente, che era stata spiegata da Fauci con la necessità di offrire il remdesivir ai partecipanti che ricevevano il placebo, una volta che si erano valutati i dati e si era visto che il farmaco era più efficace del placebo. Con questo, però, ci si è giocati la possibilità di capire da questo studio se il remdesivir sia in grado di ridurre la mortalità.

Il succo dei risultati è che, su 1063 partecipanti, 538 hanno ricevuto il remdesivir (200 mg intravena il primo giorno e 100 mg i successivi 9 giorni) e 521 un placebo.
I risultati pubblicati sono su 1049 persone: 531 del gruppo del remdesivir, 518 del gruppo del placebo.
Le caratteristiche di base dei due gruppi erano ben bilanciate per età, sesso, razza, comorbidità. Tuttavia, nel gruppo placebo ce ne sono 5% in più che avevano bisogno di ventilazione al momento di inizio del trial (score 7 nella scala di valutazione della gravità).

I pazienti del gruppo remdesivir hanno avuto miglioramenti clinici (variabili e valutati secondo una scala inizialmente a 8 gradini che andavano dall'uscita dall'ospedale senza alcuna limitazione delle attività fino alla morte, che è però stata poi abolita dalle valutazioni finali dell'endpoint primario) misurati in una mediana di 11 giorni, comparata con una mediana di 15 giorni di quelli del gruppo placebo.
La mortalità è rientrata negli endpoint secondari e quella del gruppo remdesivir è stata del 7,1%, mentre quella del gruppo placebo è stata dell'11,9%, ma questa differenza non è statisticamente significativa perché, secondo gli autori, all'inizio dello studio c'erano meno pazienti con sintomi più gravi e ciò ha diminuito la potenza statistica del trial.
Gli eventi avversi sono stati simili nei due gruppi.
La viremia non è stata misurata a nessuno.

Se da questi dati generali si prova a scendere nei dettagli, si vede che chi ha beneficiato di più del remdesivir sono stati i malati meno gravi.
Il punteggio più basso nella scala di valutazione che permetteva di entrare nello studio era 4: indicava ospedalizzazione ma senza necessità di supporto di ossigeno. Invece, il gruppo più numeroso è stato quello di pazienti che si situavano nel gradino 5: ospedalizzati e con necessità di ossigeno.
Fra i pazienti con score di 4, il beneficio nella rapidità della ripresa è stato del 38%; fra i pazienti che di score avevano 5 il beneficio è stato del 47%; ma è crollato al 20% fra i pazienti con score 6 (ventilazione a flusso elevato) e i pazienti con score 7 (quelli intubati o con necessità di ventilazione extra-corporea) è stato praticamente nullo: 0,05%.
Nei gruppi con score elevati di malati ce ne erano forse troppo pochi per raggiungere un risultato statisticamente significativo, ma sembra abbastanza chiara una cosa: i pazienti più gravi del remdesivir non hanno beneficiato proprio.

Le conclusioni degli autori sono che il tasso di mortalità alto nonostante il remdesivir suggerisce che il farmaco da solo non sia sufficiente e debba essere somministrato in combinazione con altri farmaci.

given high mortality despite the use of remdesivir, it is clear that treatment with an antiviral drug alone is not likely to be sufficient. Future strategies should evaluate antiviral agents in combination with other therapeutic approaches or combinations of antiviral agents to continue to improve patient outcomes in Covid-19.

Anche il comunicato stampa di Gilead evita i toni trionfalistici, conferma che anche loro pensano che siano necessarie combinazioni di farmaci per aggredire il SARS-CoV-2, ricorda che lo studio SIMPLE-Severe, su malati gravi, ha mostrato che il trattamento per 5 giorni serve quanto quello per 10, e si augura che i risultati dello studio SIMPLE-Moderate, che prende in esame pazienti meno gravi e che saranno disponibili a fine mese, diano indicazioni su quali pazienti possono beneficiare di più del remdesivir.

Immagine



Dora
Messaggi: 7491
Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [II] A. SAVARINO: dai macachi ai trial clinici sugli uomini

Messaggio da Dora » martedì 26 maggio 2020, 6:18

Immagine


R.I.P. clorochina? Sì, no, forse, boh.


La settimana scorsa su Lancet, che in questa situazione di emergenza ha pubblicato articoli imbarazzanti, ben al di sotto degli standard minimi di decenza scientifica, è uscito un lavoro retrospettivo di ricercatori di Harvard sull'uso di clorochina e idrossiclorochina, in combinazione o meno con azitromicina, per trattare malati di COVID-19:

Hydroxychloroquine or chloroquine with or without a macrolide for treatment of COVID-19: a multinational registry analysis

Lo studio ha analizzato i dati di 96.032 pazienti seguiti in 671 ospedali, in sei continenti, tra dicembre 2019 e aprile 2020. La popolazione è stata divisa in 14.888 pazienti (15,5% del totale) che hanno ricevuto il trattamento - 1868 la clorochina, 3783 la clorochina più macrolide, 3016 l'idrossiclorochina, e 6221 l'idrossiclorochina più macrolide - mentre 81.144 sono stati usati come controlli, nel senso che non hanno ricevuto nessuno di questi trattamenti.

Mehra e colleghi hanno contato quelli che sono morti in ospedale e i casi di aritmia ventricolare e la loro conclusione è stata che la clorochina e l'idrossiclorochina, soprattutto se in combinazione con un antibiotico macrolide come l'azitromicina, hanno aumentato il numero delle aritmie cardiache e questo ha causato un aumento nel numero dei morti fra i pazienti COVID-19 ospedalizzati.

Although several multicenter randomized controlled trials are underway, there is a pressing need to provide accurate clinical guidance because the use of chloroquine or hydroxychloroquine along with macrolides is widespread, often with little regard for potential risk.

[...] In summary, this multinational, observational, realworld study of patients with COVID-19 requiring hospitalisation found that the use of a regimen containing hydroxychloroquine or chloroquine (with or without a macrolide) was associated with no evidence of benefit, but instead was associated with an increase in the risk of ventricular arrhythmias and a greater hazard for in-hospital death with COVID-19. These findings suggest that these drug regimens should not be used outside of clinical trials and urgent confirmation from randomised clinical trials is needed.

Detta così, è la lapide sulla tomba della clorochina come farmaco per questi pazienti. E così è stata presa dall'enorme maggioranza di commentatori.

Se si entra nei dettagli dello studio, però, si vede che è gravato da problemi metodologici molto seri, che vanno ben al di là dell'impossibilità di trarre inferenze causali da studi retrospettivi e che stranamente sono sfuggiti ai revisori. Questi problemi vanno dalla composizione assolutamente disomogenea dei gruppi di pazienti studiati alla disinvoltura con cui sono stati trattati fattori confondenti importanti che possono aver grandemente influito sulle aritmie (incidenza del fumo, ipertensione, indice di massa corporea, etnia, uso concomitante di lopinavir/ritonavir a dosaggio pieno), dal fatto che i malati sono stati trattati con clorochina/idrossiclorochina quando erano già gravissimi all'espunzione dei pazienti trattati con remdesivir, fino a problemi nell'elaborazione statistica dei dati che sono stati ben evidenziati in un paio di commenti su PubPeer e in un approfondito thread su Twitter dello statistico e bioinformatico di Oxford James Watson (per intenderci: persone serie, non qualcuno della banda di ciarlatani e malfattori che si sono improvvisati paladini della clorochina).

Ma siamo in guerra e dunque ... à la guerre comme à la guerre: all'OMS, duramente sotto attacco da parte dell'amministrazione Trump, hanno deciso di usare questo (brutto) studio come arma preventiva precauzionale e ieri Tedros Adhanom Ghebreyesus ha tenuto una conferenza stampa virtuale per spiegare che hanno deliberato di sospendere temporaneamente i bracci del trial SOLIDARITY in cui si stanno studiando la clorochina e l'idrossiclorochina per poter permettere al Data Safety Monitoring Board di avviare una revisione critica di tutti i dati disponibili sulla sicurezza di questi trattamenti e valutarne adeguatamente i potenziali danni e benefici.
Una decisione precauzionale - così è stata definita.

Nel Regno Unito, forse meno invaso da spiriti guerrieri, gli organizzatori del trial RECOVERY (che di recente ha aggiunto un sesto braccio per studiare il plasma iperimmune ed è arrivato ad arruolare quasi 11.000 partecipanti) hanno deciso di non farsi spaventare dall'articolo di Mehra et al e di continuare a studiare l'idrossiclorochina:

we have received written confirmation from the MHRA that, “it is acceptable to allow continued randomisation into the hydroxychloroquine arm of the trial.”

Immagine

Su Quotidiano Sanità, ieri, riportando la notizia della decisione dell'OMS, si parlava dell'Italia:

In Italia sono attualmente in corso cinque studi su clorochina e idrossiclorochina autorizzati da Aifa. Sono stati avviati due studi preventivi, che intendono valutare l’efficacia del farmaco nel prevenire l’infezione in contesti sanitari. Uno verrà condotto su circa 1.000 operatori sanitari del San Raffaele di Milano, con l’intenzione di ridurre il numero di soggetti che si ammalano, un altro, internazionale, dovrebbe coinvolgere circa 40.000 partecipanti distribuiti in 50-100 siti diversi.

Due studi invece valuteranno l’efficacia, nel ridurre l’ospedalizzazione, della somministrazione negli stadi precoci della malattia, ai pazienti trattati da casa e ai loro familiari. Dovrebbero coinvolgere più di 2.000 pazienti.

Uno studio piemontese, infine, compara, nei pazienti affetti da malattia lieve/moderata, l’effetto dell’idrossiclorochina rispetto a idrossiclorochina combinata con azitromicina, un macrolide usato in genere come antibiotico che potrebbe avere effetti immunomodulanti.

Al momento Aifa non ha commentato la notizia della sospensione dell'Oms. (*)


I medici italiani - racconta Repubblica - tutti questi problemi di tossicità cardiaca non li hanno proprio visti.
Devono senz'altro essere tutti degli stregoni al soldo di Trump.




(*) EDIT: anche l'AIFA si spaventa per lo studio fallato di Mehra et al e sospende l’autorizzazione all’utilizzo di idrossiclorochina per il trattamento del COVID-19 al di fuori degli studi clinici.



Rispondi