Il silenzio sulla pagina
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Il silenzio sulla pagina
Ciao a tutt*,
su segnalazione di Dora, una iscritta a questo forum, vorrei proporvi questo articolo che ho pubblicato per una rivista letteraria online. Voi avete letto narrativa sull'AIDS? Come la trovate?
g.
Dell'AIDS e del virus dell'HIV nessuno parla più. Nessuno ne scrive più. Di AIDS, almeno in Occidente, non si muore più: le persone che hanno contratto la sindrome assomigliano ormai a molti altri malati cronici, bisognosi di continue cure mediche specialistiche e trattamenti costosi. A differenza di quello che succede nei paesi emergenti e in via di sviluppo, però, in Europa e negli Stati Uniti gli uomini gay e bisessuali rappresentano ancora la popolazione a maggior rischio di infezione, quella con più persone infette o con HIV non trattato. Nell'Occidente l'HIV/AIDS è ancora una malattia profondamente "gay", che ci piaccia o meno.
A seguito di queste considerazioni, molti attivisti gay si stanno mobilitando per un nuovo processo di “omosesualizzazione” della prevenzione, in contrasto con l'approccio adottato negli ultimi 15 anni nei confronti dell'AIDS da gran parte delle comunità lgbtq. Il recupero da parte dei gay della malattia servirebbe a fissare obbiettivi di prevenzione e le priorità per le risorse e gli interventi. Recuperare soprattutto la lingua della malattia, riappropriarsene anche come modello narrativo attraverso il quale contrastare l'indicibilità e l'intoccabilità dell'AIDS e mantenere alta l'attenzione.
Fin dall'inizio la letteratura sull'AIDS, per la sua forte vocazione sociale e moraleggiante, ha tentato di presentare ai suoi lettori i pericoli della malattia, richiamando spesso l'attenzione sulla sicurezza, e in ultima analisi, mostrare la sofferenza e la solitudine delle persone che con la sindrome hanno a che fare. Come altre forme di scrittura di testimonianza, la letteratura sull'AIDS è emersa in reazione alla negazione generale e alla scarsa familiarità con il suo soggetto, una letteratura che chiama i lettori a dichiarare la loro corresponsabilità nel silenzio e a condividere l'onere di testimoniare e commemorare coloro che sono morti.
Nei paesi anglosassoni, dove per prima si è tentato di rispondere alla malattia anche con la letteratura, molti di questi libri, per lo più romanzi o memoir, hanno effettivamente dato forma all'AIDS, ancor più quando la politica intenzionalmente negava l'evidenza. Così romanzi come Second Son di Robert Ferro del 1988, dove la malattia non veniva mai nominata con il proprio nome, saggi come AIDS and its Metaphors di Susan Sontag del 1989, opere teatrali come Angels in America di Tony Kushner del 1993, hanno restituito ai lettori la complessità dell'esperienza clinica e personale dell'AIDS. La situazione in Italia, come spesso accade, è ben diversa. A parte rare eccezioni, come Camere Separate di Pier Vittorio Tondelli, L'intruso di Brett Shapiro, Kurt sta facendo la farfalla di Alessandro Golinelli, Il male di Dario Bellezza di Maurizio Gregorini, i discorsi letterari e non sull'AIDS sembrano non essere mai attecchiti del tutto e ora sono completamente scomparsi.
Bisognerebbe forse ripartire, forse, dall'interrogativo che si pone Adam Mars-Jones nell'incipit di un suo racconto, dal titolo 'Monopolies of Loss' incentrato proprio sull'AIDS: “How do you tell a fresh story when the structure is set?”, come si fa a raccontare una storia nuova quando la struttura è data?
[Articolo originariamente pubblicato su Finzioni Magazine il 15 novembre 2012]
su segnalazione di Dora, una iscritta a questo forum, vorrei proporvi questo articolo che ho pubblicato per una rivista letteraria online. Voi avete letto narrativa sull'AIDS? Come la trovate?
g.
Dell'AIDS e del virus dell'HIV nessuno parla più. Nessuno ne scrive più. Di AIDS, almeno in Occidente, non si muore più: le persone che hanno contratto la sindrome assomigliano ormai a molti altri malati cronici, bisognosi di continue cure mediche specialistiche e trattamenti costosi. A differenza di quello che succede nei paesi emergenti e in via di sviluppo, però, in Europa e negli Stati Uniti gli uomini gay e bisessuali rappresentano ancora la popolazione a maggior rischio di infezione, quella con più persone infette o con HIV non trattato. Nell'Occidente l'HIV/AIDS è ancora una malattia profondamente "gay", che ci piaccia o meno.
A seguito di queste considerazioni, molti attivisti gay si stanno mobilitando per un nuovo processo di “omosesualizzazione” della prevenzione, in contrasto con l'approccio adottato negli ultimi 15 anni nei confronti dell'AIDS da gran parte delle comunità lgbtq. Il recupero da parte dei gay della malattia servirebbe a fissare obbiettivi di prevenzione e le priorità per le risorse e gli interventi. Recuperare soprattutto la lingua della malattia, riappropriarsene anche come modello narrativo attraverso il quale contrastare l'indicibilità e l'intoccabilità dell'AIDS e mantenere alta l'attenzione.
Fin dall'inizio la letteratura sull'AIDS, per la sua forte vocazione sociale e moraleggiante, ha tentato di presentare ai suoi lettori i pericoli della malattia, richiamando spesso l'attenzione sulla sicurezza, e in ultima analisi, mostrare la sofferenza e la solitudine delle persone che con la sindrome hanno a che fare. Come altre forme di scrittura di testimonianza, la letteratura sull'AIDS è emersa in reazione alla negazione generale e alla scarsa familiarità con il suo soggetto, una letteratura che chiama i lettori a dichiarare la loro corresponsabilità nel silenzio e a condividere l'onere di testimoniare e commemorare coloro che sono morti.
Nei paesi anglosassoni, dove per prima si è tentato di rispondere alla malattia anche con la letteratura, molti di questi libri, per lo più romanzi o memoir, hanno effettivamente dato forma all'AIDS, ancor più quando la politica intenzionalmente negava l'evidenza. Così romanzi come Second Son di Robert Ferro del 1988, dove la malattia non veniva mai nominata con il proprio nome, saggi come AIDS and its Metaphors di Susan Sontag del 1989, opere teatrali come Angels in America di Tony Kushner del 1993, hanno restituito ai lettori la complessità dell'esperienza clinica e personale dell'AIDS. La situazione in Italia, come spesso accade, è ben diversa. A parte rare eccezioni, come Camere Separate di Pier Vittorio Tondelli, L'intruso di Brett Shapiro, Kurt sta facendo la farfalla di Alessandro Golinelli, Il male di Dario Bellezza di Maurizio Gregorini, i discorsi letterari e non sull'AIDS sembrano non essere mai attecchiti del tutto e ora sono completamente scomparsi.
Bisognerebbe forse ripartire, forse, dall'interrogativo che si pone Adam Mars-Jones nell'incipit di un suo racconto, dal titolo 'Monopolies of Loss' incentrato proprio sull'AIDS: “How do you tell a fresh story when the structure is set?”, come si fa a raccontare una storia nuova quando la struttura è data?
[Articolo originariamente pubblicato su Finzioni Magazine il 15 novembre 2012]
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Re: Il silenzio sulla pagina
Ciao Grammancino, benvenuto!
Mi leggo bene il tuo articolo e poi ti rispondo.
Mi leggo bene il tuo articolo e poi ti rispondo.

Re: Il silenzio sulla pagina
I migliori romanzi sull'aids che ho letto (ma ti parlo dell'aids vecchio stampo, prima che arrivassero le cure) sono stati scritti dal francese Hervé Guibert e compongono la sua trilogia: All'amico che non mi ha salvato la vita, Le regole della pietà e Citomegalovirus. Diario d'ospedale.
Anche LE ORE di cunningham tratta il tema dell'aids. Un altro grande romanziere che ha scritto di aids essendo lui stesso sieropositivo è Edmund White e sono sicuro che ne abbia parlato nell'autobiografia My Lives che putroppo non ho letto (White è ancora vivente comunque).
In italia sono stati scritti diversi memoir che hanno parlato di sieropositività da UNA BARCHETTA DI CARTA, al libro autobiografico di Daniela Lociuro, al nostro analkoliker, al romanzo della collana neon se non sbaglio rizzoli curata da aldo nove di cui avevo parlato su sieropositivo ... ti potrei fare tanti titoli ma se vai in qualsiasi biblioteca e fai una ricerca trovi un discreto numero di volumi di questa roba qua, certo non sono autori famosi , sono pubblicati da piccole o piccolissime case editrici e sono storie autobiografiche. Non sono sicuramente grande narrativa ... il grande scrittore riesce a mettere una distanza tra sé e la materia autobiografica tanto che sembra di leggere un romanzo mentre lo scrittore mediocre ti fa sentire che c'è dentro con tutte e due i piedi in quello che narra.
In italia aveva avuto un buon riscontro di critica Sex Virus di Luca rossi
http://www.feltrinellieditore.it/Scheda ... ume=673397
che io non avevo letto.
Invece purtroppo avevo acquistato Punto e a capo
http://biblioinrete.comperio.it/opac/de ... log:143793
che sconsiglio vivamente perché rappresenta proprio ciò che non va fatto, cioè è messo giù in modo un po' comico e ironico con l'intento di sdrammatizzare, ne è uscita una favola ed è un orrore (Punto e a capo è un feltrinelli, e allora a quel punto consiglio di leggere proprio quei memoir di scrittori dilettanti che se non altro evitano l'odiosa ironia).
comunque hai ragione, un romanzo accettabile che racconti l'aids attuale in italia non esiste. Forse perché non esiste uno scrittore sieropositivo. Dovrebbe essere vivo tondelli e lui ci avrebbe regalato il grande libro sull'aids, ne sono sicuro. Ma così, qui da noi in italia, la situazione è questa. Se qualcosa di buono sia stato scritto altrove questo francamente non lo so. Effettivamente però è un peccato e tanti ragazzi potrebbero effettivamente informarsi e conoscere l'aids attraverso un romanzo ( magari anche in una sottotrama - all'interno di una grande narrazione).
Anche LE ORE di cunningham tratta il tema dell'aids. Un altro grande romanziere che ha scritto di aids essendo lui stesso sieropositivo è Edmund White e sono sicuro che ne abbia parlato nell'autobiografia My Lives che putroppo non ho letto (White è ancora vivente comunque).
In italia sono stati scritti diversi memoir che hanno parlato di sieropositività da UNA BARCHETTA DI CARTA, al libro autobiografico di Daniela Lociuro, al nostro analkoliker, al romanzo della collana neon se non sbaglio rizzoli curata da aldo nove di cui avevo parlato su sieropositivo ... ti potrei fare tanti titoli ma se vai in qualsiasi biblioteca e fai una ricerca trovi un discreto numero di volumi di questa roba qua, certo non sono autori famosi , sono pubblicati da piccole o piccolissime case editrici e sono storie autobiografiche. Non sono sicuramente grande narrativa ... il grande scrittore riesce a mettere una distanza tra sé e la materia autobiografica tanto che sembra di leggere un romanzo mentre lo scrittore mediocre ti fa sentire che c'è dentro con tutte e due i piedi in quello che narra.
In italia aveva avuto un buon riscontro di critica Sex Virus di Luca rossi
http://www.feltrinellieditore.it/Scheda ... ume=673397
che io non avevo letto.
Invece purtroppo avevo acquistato Punto e a capo
http://biblioinrete.comperio.it/opac/de ... log:143793
che sconsiglio vivamente perché rappresenta proprio ciò che non va fatto, cioè è messo giù in modo un po' comico e ironico con l'intento di sdrammatizzare, ne è uscita una favola ed è un orrore (Punto e a capo è un feltrinelli, e allora a quel punto consiglio di leggere proprio quei memoir di scrittori dilettanti che se non altro evitano l'odiosa ironia).
comunque hai ragione, un romanzo accettabile che racconti l'aids attuale in italia non esiste. Forse perché non esiste uno scrittore sieropositivo. Dovrebbe essere vivo tondelli e lui ci avrebbe regalato il grande libro sull'aids, ne sono sicuro. Ma così, qui da noi in italia, la situazione è questa. Se qualcosa di buono sia stato scritto altrove questo francamente non lo so. Effettivamente però è un peccato e tanti ragazzi potrebbero effettivamente informarsi e conoscere l'aids attraverso un romanzo ( magari anche in una sottotrama - all'interno di una grande narrazione).
Re: Il silenzio sulla pagina
Ciao Grammancino, sono felice che tu abbia accettato l’invito! Quando ho letto il tuo post un paio di settimane fa, ho pensato che sarebbe stato interessante averti qui e svolgere i diversi temi che rendono denso e molto bello il tuo scritto, perché tu avresti avuto l’opportunità di confrontare un approccio letterario e delle idee per ora ancora astratte con persone che l’infezione la vivono nei loro corpi e purtroppo pure nelle loro menti (di solito, quando sbatto la faccia contro la realtà, mi fa un gran male, ma poi tutto assume coerenza e profondità maggiori). E noi, invece, di affrontare una discussione mille volte ricorrente nei forum da una prospettiva diversa.grammancino ha scritto:in Europa e negli Stati Uniti gli uomini gay e bisessuali rappresentano ancora la popolazione a maggior rischio di infezione, quella con più persone infette o con HIV non trattato. Nell'Occidente l'HIV/AIDS è ancora una malattia profondamente "gay", che ci piaccia o meno.
A seguito di queste considerazioni, molti attivisti gay si stanno mobilitando per un nuovo processo di “omosesualizzazione” della prevenzione, in contrasto con l'approccio adottato negli ultimi 15 anni nei confronti dell'AIDS da gran parte delle comunità lgbtq. Il recupero da parte dei gay della malattia servirebbe a fissare obbiettivi di prevenzione e le priorità per le risorse e gli interventi. Recuperare soprattutto la lingua della malattia, riappropriarsene anche come modello narrativo attraverso il quale contrastare l'indicibilità e l'intoccabilità dell'AIDS e mantenere alta l'attenzione.
(…) Bisognerebbe forse ripartire, forse, dall'interrogativo che si pone Adam Mars-Jones nell'incipit di un suo racconto, dal titolo 'Monopolies of Loss' incentrato proprio sull'AIDS: “How do you tell a fresh story when the structure is set?”, come si fa a raccontare una storia nuova quando la struttura è data?
Solo un paio di riflessioni, perché poi spero che altri molto più qualificati di me a parlare superino la stanchezza autunnale e dicano la loro.
È vero che, nonostante per molti anni si sia tentato di combattere lo stigma che pesa sulle persone malate di HIV attaccando il concetto di “categorie a rischio” e dicendo che è un’infezione che può colpire chiunque (verissimo, per altro), questa resta una malattia che colpisce un numero di omosessuali talmente al di là delle proporzioni della loro presenza nelle società occidentali che non c’è nulla di paradossale nel definirla un “gay disease”.
Che quindi gli omosessuali abbiano tanto da dire è comprensibile, ma non solo perché la prevenzione deve essere personalizzata a seconda delle persone cui si rivolge e le parole “giuste” per parlare con un giovane omosessuale non sono le stesse che possono aprirsi la strada verso una donna o verso un eterosessuale cinquantenne.
Non è solo questione di prevenzione e dei fallimenti che la prevenzione sta sperimentando nel nostro mondo, che impongono di ripensare vecchie strategie e di abbattere miti che non hanno più alcun senso.
È anche questione di chi vive la malattia e di come la vive e di come ne parla, al di là degli aspetti clinici, di come la elabora e come trasmette la propria concettualizzazione agli altri. Se la trasmette, perché per molti il silenzio non è solo sulla pagina.
È per questo che la domanda che chiude il tuo post mi ha colpito: come racconti una storia nuova quando la struttura è data? E come racconti una storia che non è la storia di chiunque, ma proprio la tua?
P.S. Vedo ora che è intervenuto Friendless. Contavo proprio che l'argomento attirasse la sua attenzione.
Re: Il silenzio sulla pagina
Ciao e benvenuto.
Come qualcuno sa, la letteratura e la cinematografia sull’AIDS non mi attraggono… da ben prima che finissi in questa storia con entrambi i piedi. Sarà stato un misto di sesto senso e voglia di rimozione, ma ho sempre riservato a questo tipo di racconto lo stesso trattamento destinato ad altre sventure incomprensibili e ingestibili: so che “il male” esiste, e mi basta, non intendo consentirgli di farmi compagnia più del dovuto.
Così, tutta la letteratura sul tema che conosco sono i pudichi passaggi di David Leavitt, che si limita sempre ad accennare alla cosa con la stessa lontananza con la quale potremmo descrivere la foschia sul golfo di Genova osservata mentre eravamo in treno… ho il sospetto che pure Leavitt condivida il mio approccio “et pour cause”: la sua éra sono gli anni ottanta del secolo scorso, lì si muove e da lì in fondo non s’è mai allontanato, e quelli erano anni di disperazione, in cui un’intera comunità si vedeva rinchiusa da mani invisibili in un campo di sterminio senza confini apparenti… ci manca solo di stare a rimestare più di tanto.
Ci sono poi indubbie differenze culturali tra l’Italia e il panorama d’oltreoceano (o forse solo d’oltralpi), con una letteratura che quando parla di omosessualità proietta tutto il peso della nostra cultura nazionale, ottenendo così il pregevole risultato di opere che il target naturale rifiuta perché mortalmente “pesanti”, e che non riescono a diventare “letteratura e basta” per il resto del pubblico.
C’è però anche da chiedersi se abbia senso continuare a raccontare quegli anni. Perché i casi sono due: o il frameset è sempre quello, e allora ogni nuova opera è “solo” una testimonianza in più del passato, d’un passato che gli stessi protagonisti in fondo non hanno gran piacere a ricordare, anche perché il ricordo non serve a “insegnare”, come in altri casi, oppure non è vero che non è cambiato nulla.
Ecco, dal mio lontano punto d’osservazione mi pare d’avvertire che il cambio di paradigma nella malattia, la sua cronicizzazione, potrebbe fornire nuovi materiali per raccontare una realtà nuova, non sto dicendo una realtà “felice” ma che potrebbe per esempio aiutare a capire anche cosa significhi essere gay in questi anni, perché HAART o non HAART la malattia è una componente fondante della nostra identità culturale.
Capisco che la vita normale di un single o di una coppia piccolo borghese sia meno seducente dal punto di vista della narrazione di una riedizione delle peste a Milano, ma credo che la sfida stia lì…
Come qualcuno sa, la letteratura e la cinematografia sull’AIDS non mi attraggono… da ben prima che finissi in questa storia con entrambi i piedi. Sarà stato un misto di sesto senso e voglia di rimozione, ma ho sempre riservato a questo tipo di racconto lo stesso trattamento destinato ad altre sventure incomprensibili e ingestibili: so che “il male” esiste, e mi basta, non intendo consentirgli di farmi compagnia più del dovuto.
Così, tutta la letteratura sul tema che conosco sono i pudichi passaggi di David Leavitt, che si limita sempre ad accennare alla cosa con la stessa lontananza con la quale potremmo descrivere la foschia sul golfo di Genova osservata mentre eravamo in treno… ho il sospetto che pure Leavitt condivida il mio approccio “et pour cause”: la sua éra sono gli anni ottanta del secolo scorso, lì si muove e da lì in fondo non s’è mai allontanato, e quelli erano anni di disperazione, in cui un’intera comunità si vedeva rinchiusa da mani invisibili in un campo di sterminio senza confini apparenti… ci manca solo di stare a rimestare più di tanto.
Ci sono poi indubbie differenze culturali tra l’Italia e il panorama d’oltreoceano (o forse solo d’oltralpi), con una letteratura che quando parla di omosessualità proietta tutto il peso della nostra cultura nazionale, ottenendo così il pregevole risultato di opere che il target naturale rifiuta perché mortalmente “pesanti”, e che non riescono a diventare “letteratura e basta” per il resto del pubblico.
C’è però anche da chiedersi se abbia senso continuare a raccontare quegli anni. Perché i casi sono due: o il frameset è sempre quello, e allora ogni nuova opera è “solo” una testimonianza in più del passato, d’un passato che gli stessi protagonisti in fondo non hanno gran piacere a ricordare, anche perché il ricordo non serve a “insegnare”, come in altri casi, oppure non è vero che non è cambiato nulla.
Ecco, dal mio lontano punto d’osservazione mi pare d’avvertire che il cambio di paradigma nella malattia, la sua cronicizzazione, potrebbe fornire nuovi materiali per raccontare una realtà nuova, non sto dicendo una realtà “felice” ma che potrebbe per esempio aiutare a capire anche cosa significhi essere gay in questi anni, perché HAART o non HAART la malattia è una componente fondante della nostra identità culturale.
Capisco che la vita normale di un single o di una coppia piccolo borghese sia meno seducente dal punto di vista della narrazione di una riedizione delle peste a Milano, ma credo che la sfida stia lì…
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Re: Il silenzio sulla pagina
Filmografia su hiv ne ho visti, e anche documentari. Mi sono serviti per capire com'era la situazione negli '80 e '90. Erano fatti bene?, non lo so. Di libri non ne ho mai letti (quello di Edmund White, My Lives ce l'ho ma non l'ho mai letto, magari lo leggerò) non ho avuto modo e poi ho preferito 'imparare' quei anni attraverso qualche documentario.grammancino ha scritto:[...]
Bisognerebbe forse ripartire, forse, dall'interrogativo che si pone Adam Mars-Jones nell'incipit di un suo racconto, dal titolo 'Monopolies of Loss' incentrato proprio sull'AIDS: “How do you tell a fresh story when the structure is set?”, come si fa a raccontare una storia nuova quando la struttura è data?
Adam Mar-Jones pone una bellissima domanda. Il problema è come raccontarlo perché noi 'giovani' d'HIV non abbiamo subìto quel calvario che hanno passato i 'vecchi' d'HIV. Il problema invece esiste e soprattutto tra gli omosessuali perché lo stigma non è stato cancellato e tutti i giorni ne portiamo il peso sotto tanti punti di vista, che va dal relazionarsi all'ambiente del lavoro. Oggi noi omosessuali siamo visti ancora come degli untori della società e questo, in parte è vero, ma anche scorretto definirci delgli untori. Perché oggi gli untori sono anche i padri di famiglia che vanno sia con gli uomini che con le donne.
Ci vorrebbe un ragazz* che racconti un po' la sua vita raccontando dalla prospettiva hiv.
Re: Il silenzio sulla pagina
Io sono in linea col pensiero di Uffa e non apporto niente di più giacché ha esplicitato alla perfezione proprio tutto
Io conosco Cunninghan (friendless) ma l'ho letto tanti anni fa perciò sono andato a rileggere quello che hai postato : http://it.wikipedia.org/wiki/Le_ore_(romanzo) ma non dice niente di Aids
Aggiungo: tu avevi tanti memoir ma ti sei tirato indietro- e non a caso...- quando t'avevano dato l'ok per la pubblicazione. Hai perso una grande opportunità: tra l'altro sieropositivi giovani o infettati in questi ultimi anni
Io conosco Cunninghan (friendless) ma l'ho letto tanti anni fa perciò sono andato a rileggere quello che hai postato : http://it.wikipedia.org/wiki/Le_ore_(romanzo) ma non dice niente di Aids
Aggiungo: tu avevi tanti memoir ma ti sei tirato indietro- e non a caso...- quando t'avevano dato l'ok per la pubblicazione. Hai perso una grande opportunità: tra l'altro sieropositivi giovani o infettati in questi ultimi anni
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Re: Il silenzio sulla pagina
Grazie a tutt* del benvenuto e dei commenti.
Il mio intervento è molto incentrato sulla letterarietà dell'AIDS, quindi carente dal punto di vista pratico. Me ne rendo conto. Come mi rendo conto, che da quando la letteratura sull'AIDS ha iniziato a farsi sentire negli States e in Gran Bretagna le cose sono effettivamente cambiate. Ho notato che qualcun* di voi distingue tra vecchi e nuovi, e forse anche da questo si potrebbe ripartire per allargare il mio discorso. Perché quella struttura di cui parla Adam Mars-Jones (questo ve lo consiglio io, se potete leggetelo, purtroppo le cose che lui ha scritto sull'AIDS non sono mai state tradotte, se non pezzi credo) è ancora prefissata, ma all'interno le strade che vi si possono perseguire sono tante e diverse.
Ad esempio molti hanno letto Philadelphia come un bel film, ma forse non racconta tutta la storia. Bisogna imparare a raccontare l'AIDS oltre se stessa, proprio affinché non diventi solo un'altra memoria.
Infine volevo esporre il mio punto di vista. Ho parlato di gay e AIDS in letteratura, perché da militante gay e critico letterario, credo che solo attraverso un cambiamento culturale, vero e duraturo, si possano ribaltare degli schemi che sono sia mentali che sociali, che prevedono un noi e un loro. Il noi sta sempre dalla parte del giusto e loro dalla parte del torto. Ecco, io vorrei che si riuscisse a dialogare. Io ho tanto da imparare, ecco perché sono qui.
Vi riporto anche un articolo letto oggi sulla crescita del numero di contagi HIV in GB: http://www.pinknews.co.uk/2012/11/29/uk ... cord-high/
Grazie ancora
g
Il mio intervento è molto incentrato sulla letterarietà dell'AIDS, quindi carente dal punto di vista pratico. Me ne rendo conto. Come mi rendo conto, che da quando la letteratura sull'AIDS ha iniziato a farsi sentire negli States e in Gran Bretagna le cose sono effettivamente cambiate. Ho notato che qualcun* di voi distingue tra vecchi e nuovi, e forse anche da questo si potrebbe ripartire per allargare il mio discorso. Perché quella struttura di cui parla Adam Mars-Jones (questo ve lo consiglio io, se potete leggetelo, purtroppo le cose che lui ha scritto sull'AIDS non sono mai state tradotte, se non pezzi credo) è ancora prefissata, ma all'interno le strade che vi si possono perseguire sono tante e diverse.
Ad esempio molti hanno letto Philadelphia come un bel film, ma forse non racconta tutta la storia. Bisogna imparare a raccontare l'AIDS oltre se stessa, proprio affinché non diventi solo un'altra memoria.
Infine volevo esporre il mio punto di vista. Ho parlato di gay e AIDS in letteratura, perché da militante gay e critico letterario, credo che solo attraverso un cambiamento culturale, vero e duraturo, si possano ribaltare degli schemi che sono sia mentali che sociali, che prevedono un noi e un loro. Il noi sta sempre dalla parte del giusto e loro dalla parte del torto. Ecco, io vorrei che si riuscisse a dialogare. Io ho tanto da imparare, ecco perché sono qui.
Vi riporto anche un articolo letto oggi sulla crescita del numero di contagi HIV in GB: http://www.pinknews.co.uk/2012/11/29/uk ... cord-high/
Grazie ancora
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Re: Il silenzio sulla pagina
Grazie a te, è molto bello essere sfidati a puntare lo sguardo anche verso aspetti che di solito non sono sotto la nostra attenzione...
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Re: Il silenzio sulla pagina
Grammancino, vorrei chiederti se conosci Queerskins e che cosa ne pensi.grammancino ha scritto:Ho notato che qualcun* di voi distingue tra vecchi e nuovi, e forse anche da questo si potrebbe ripartire per allargare il mio discorso. Perché quella struttura di cui parla Adam Mars-Jones (questo ve lo consiglio io, se potete leggetelo, purtroppo le cose che lui ha scritto sull'AIDS non sono mai state tradotte, se non pezzi credo) è ancora prefissata, ma all'interno le strade che vi si possono perseguire sono tante e diverse.
E vorrei naturalmente chiederlo a tutti gli altri.
Mi sembra forse l'opposto di quanto stiamo dicendo, perché è una storia vecchia - la vita di un giovane medico gay che si ammala all'inizio dell'epidemia - ma raccontata mediante scritti, musiche, immagini, spezzoni di film, che pur formando dei capitoli e avendo una forte coerenza, possono però assumere un ordine diverso a seconda di come noi scegliamo di leggerli.
Devo ammettere che mi ha colpito davvero tanto.
Per chi ancora non avesse incontrato (non so che verbo usare: non è solo leggere, né vedere, né ascoltare) questo romanzo multimediale:
Queerskins
Qui, invece, l'autrice - Illya Szilak - racconta il suo lavoro:
