Io non so quanto si possa dire che questo caso sia davvero diverso da una PEP, forse perché è anche molto difficile misurare la quantità di virus presente in una persona pochi istanti dopo che è stata contagiata: senza tante storie, si interviene entro poche ore con la ART e, se tutto va bene (come di solito accade) si impedisce al virus che ha oltrepassato le prime barriere immunitarie e circola nell'organismo di instaurare un'infezione.Dora ha scritto:onestamente, con quell'HIV RNA così basso, a me questo pare più un caso di PEP che ha avuto successo che una cura vera e propria: hanno preso la bambina per il rotto della cuffia, come succede in quei tanti casi di Profilassi Post Esposizione che non fanno più notizia.
Cercherò di vedere la presentazione per capirci qualcosa di più.
Sta però di fatto che ho ascoltato la presentazione che Deborah Persaud ha tenuto ieri al CROI e, se l’interpretazione su che cosa davvero sia questo caso raso resterà aperta al dibattito per chissà quanto e in fondo potrebbe essere una discussione meramente accademica, i dati presentati non mi sembra possano essere discussi: oltre agli anticorpi che poteva ben avere ereditato dalla madre, il virus nella bambina c’era. Poi, dopo la ART, non c’era più.
Questi sono gli appunti che ho preso ascoltando la Persaud. Seguono le slides con maggiori dettagli.
Dal momento che non si conosceva lo stato sierologico della madre, come da prassi negli Stati Uniti, le è stato fatto un test rapido quando si è presentata in ospedale per il parto. Il test è risultato positvo, ma non è stato possibile fare una rapida profilassi alla nascitura, perché il parto è avvenuto molto in fretta.
A 30 ore dalla nascita, la bambina è stata trasportata all’ospedale dell’università del Mississippi. Al suo arrivo, sono stati prelevati due campioni di sangue indipendenti, presi in due momenti di tempo diversi, per stabilire lo stato di infezione sia nel plasma sia nelle PBMC, come è prassi in caso di esposizione all’HIV al momento della nascita. Sono stati fatti due test virologici (acidi nucleici + viremia), in grado di segnalare molto rapidamente se c’è infezione.
Il risultato (dal sangue periferico) corrisponde alla definizione standard di infezione da HIV: HIV RNA = 19.812 copie/mL; HIV DNA = positivo.
L’infezione della madre è stata confermata con test anticorpale + Western Blot (HIV-1 di tipo B, wild type). Sono stati inoltre valutati sia la viremia (molto bassa: 2432 copie/ml), sia i CD4 (664 cellule/mm3).
A 31 ore di vita, come da prassi, la bambina è stata messa in profilassi con un regime di tre farmaci: zidovudina, lamivudina e nevirapina. Quello che distingue questo caso dagli standard adottati negli Stati Uniti è il dosaggio della nevirapina: terapeutico, due volte al giorno.
Dai 7 giorni in poi, il regime terapeutico della bambina è stato – sempre come da prassi – modificato: AZT/3TC/NVP => AZT/3TC/LPV/r.
La bambina è stata monitorata fino ai 18 mesi di età e ha mostrato il tipico decadimento bifasico della viremia nel plasma, che presentano le persone messe in terapia antiretrovirale: un crollo molto rapido, seguito da una fase di decadimento più lenta, a indicare l’infezione di diverse popolazioni di cellule.
Una viremia irrilevabile (< 48) è stata raggiunta nella terza settimana di vita, e poi mantenuta. Così come sono rimasti costanti e normali i livelli dei CD4.
A 18 mesi di vita, la bambina è stata persa al follow up e ha sospeso la ART e si è ripresentata a 23 mesi, dopo 5 mesi di sospensione terapeutica. La viremia è rimasta irrilevabile, secondo i test standard.
A 25 mesi sono state ripetute le analisi, questa volta più approfondite: l’HIV RNA del sangue continuava ad esssere IRRILEVABILE, il test ELISA standard era NEGATIVO, la PCR per l’HIV DNA era NEGATIVA.
A quel punto sono state fatte le analisi con i test più sensibili esistenti (quelli usati nel caso del “Paziente tedesco”), per vedere il grado di persistenza dell’HIV: tutti negativi, tranne qualche minuscola traccia di DNA provirale.
Madre e figlia condividevano lo stesso virus e anche lo stesso profilo HLA: nessun allele protettivo.
Conclusione: è il primo caso ben documentato di cura (funzionale, non sono in grado di parlare di eradicazione né di assicurare che mai, in futuro, si avrà un rebound virale) di un neonato infetto da HIV. Questo fa ipotizzare che l’uso precocissimo della ART possa aver impedito il formarsi del reservoir e aver così portato alla cura della bambina.
Verrà fatto un trial clinico (IMPAACT Network) per studiare gli effetti della ART data immediatamente dopo la nascita.














