Ricordate che nel giugno dell’anno scorso – durante un seminario in Spagna - i medici che hanno ora in cura Timothy Brown diffusero i primi dati approfonditi sulla sua situazione virologica, che per loro significavano che si era raggiunta la cura, ma che spinsero Lafeuillade (che non c’entrava nulla) a far uscire un comunicato stampa in cui sosteneva che Timothy non era guarito oppure si era reinfettato?Dora ha scritto:Fin da quando abbiamo saputo che Timothy Brown era davvero guarito, ci siamo sempre chiesti che cosa potesse in concreto significare la guarigione
Ne parlammo a lungo da qui in poi.
Bene, due giorni fa su PLoS PATHOGENS Steven Yukl, Steven Deeks e la crème de la crème della ricerca mondiale hanno pubblicato un articolo in cui confermano quei dati e ne offrono un’interpretazione: Challenges in Detecting HIV Persistence during Potentially Curative Interventions: A Study of the Berlin Patient.
Un brevissimo riassunto della situazione:
- • il paziente ha interrotto la ART subito dopo il trapianto e da allora non ha avuto HIV RNA rilevabile nel plasma per più di 5 anni;
• studi fatti in precedenza avevano dimostrato che non c’era HIV RNA rilevabile nel liquido cerebrospinale;
• non si era riusciti a trovare tracce di HIV DNA nelle PBMC, né nel midollo, né nel cervello e neppure nel colon;
• le risposte dei linfociti T HIV-specifici sono diminuite dopo il trapianto;
• ha perso gli anticorpi alle proteine virali Pol e Gag, ma non alla Env;
• anche se 5,5 mesi dopo il trapianto sono state trovate nel colon delle cellule che esprimevano il CCR5, in tempi successivi non se ne sono più trovate né nel colon, né nel fegato, né nel cervello.
Nonostante l’indiscutibile successo del trapianto – scrivono Yukl e Deeks – ci sono delle ragioni teoriche che fanno pensare che l’HIV possa sopravvivere al trapianto. Fra queste:
- • la possibile presenza, prima del trapianto, di un virus X4-tropico;
• il rilevamento di rari macrofagi CCR5+ 5,5 mesi dopo il trapianto;
• la possibilità di reservoir di cellule non ematopoietiche che vivono molto a lungo e che potrebbero produrre virus, anche se la capacità di questo virus di replicarsi sarebbe ridotta dal fatto che mancano cellule ematopoietiche che esprimono il CCR5.
Nella maggior parte dei pazienti in ART il livello di HIV persistente è molto basso e servono i “single copy assays” per individuare l’RNA virale nel sangue, mentre nei tessuti linfatici e nell’intestino è possibile trovare concentrazioni di virus più alte. Quindi il “Paziente Tedesco”, dopo essersi trasferito da Berlino a San Francisco nel 2011, ha accettato di sottoporsi a molte indagini difficili e invasive per permettere ai suoi medici di capire se il trapianto si è risolto in una cura sterilizzante e anche per testare la sensibilità dei loro strumenti diagnostici in una situazione limite.
La figura 1 rappresenta la storia della cura di Timothy. Segnalati in verde, gli innumerevoli prelievi fatti fra il 2011 e il 2012:

La tabella che segue offre invece una sintesi dei risultati di tutte queste indagini, che ci dicono che non sono stati trovati né DNA, né RNA virale né nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC), né nel fluido cerebrospinale, né nei linfonodi, né nell’ileo terminale. Inoltre, non è stato possibile estrarre e coltivare in vitro del virus capace di replicazione dalle PBMC. Due laboratori hanno trovato dell’HIV RNA nel plasma e un laboratorio ha trovato dell’HIV DNA nel retto, a dei livelli molto più bassi rispetto a quelli rinvenibili nelle persone in ART soppressiva e assai vicini ai limiti di rilevazione dei test più sensibili esistenti. Non è stato possibile ottenere dei dati sulle sequenze trovate nel plasma o nell’intestino, mentre la sequenza X4 che è stata trovata nelle PBMC non corrispondeva alle sequenze di prima del trapianto.

Il virus trovato nelle PBMC non era capace di replicazione e, mentre le risposte dei linfociti T HIV-specifici erano praticamente assenti, il livello di anticorpi anti-HIV è stato rilevabile, ma nei 18 mesi di osservazione è diminuito.
Secondo Yukl, Deeks e colleghi, questi deboli segnali di presenza del virus possono essere interpretati in due modi:
- 1. potrebbero essere tutti e 4 dei falsi positivi, forse dovuti a un’amplificazione mediante PCR non specifica (per esempio, da retrovirus endogeni), soprattutto tenendo conto che i numeri di copie amplificate erano così vicini ai limiti dei test, oppure a una contaminazione con altri campioni, anche se dei controlli negativi sono stati fatti per tutti i campioni e sono sempre risultati negativi;
2. oppure uno o più dei segnali potrebbero davvero essere positivi. Se l’HIV persiste a dei livelli estremamente bassi, o in foci non omogenei, il rilevamento potrebbe essere inconsistente e potrebbe dipendere dalla variabilità del campione, dal suo volume, o anche dalla sensibilità del test.
Per poter verificare la persistenza dell’HIV è necessario poter confermare le sequenze. Ma questo non è stato possibile. In ogni caso, nonostante i segnali della PCR, non è stato possibile coltivare dalle cellule prelevate alcun virus capace di replicazione.
Se uno o più segnali della PCR indicano dei veri positivi, ci si può chiedere perché l’HIV non sia stato trovato prima e perché adesso lo si ritrovi in modo intermittente. È possibile che persista a dei livelli così bassi da renderlo non rilevabile attraverso i campioni? Oppure che ci sia ancora in giro del virus X4-tropico? Questa ipotesi, tuttavia, si scontra con il fatto che la grande maggioranza delle trasmissioni avviene per mezzo di uno o pochi virioni che usano il CCR5, mentre l’infezione delle persone con omozigosi CCR5Δ32 è estremamente rara. Inoltre, ci si può aspettare che la trasmissione di un virus X4 comporti una robusta replicazione, che però non c’è stata.
Se l’HIV persiste, perché non si è diffuso? E dove persiste? È difettivo o comunque incapace di prevalere sulle reazioni immuni?
Il fatto, tuttavia, che i livelli di risposte dei linfociti T HIV-specifici fossero bassissimi, che gli anticorpi anti-HIV fossero bassi e in continua diminuzione e che ci sia stata una parziale sieroreversione (con western blot indeterminato) - tutto suggerisce che il livello degli antigeni dell’HIV sia da bassissimo a inesistente.
Quindi, dati tutti questi segnali negativi, si può pensare che i segnali positivi siano dei falsi positivi.
I livelli residuali di anticorpi e di linfociti T HIV-specifici erano sensibilmente più bassi rispetto a quelli che si riscontrano in persone da molti anni in ART soppressiva. A rendere però più complessa l’interpretazione di questi dati c’è il fatto che la procedura del trapianto ha causato la perdita dei linfociti T e B originari. Nelle persone HIV-negative che si sottopongono a trapianto allogenico di staminali, gli anticorpi sierici al tetano decadono a tassi variabili, ma rimangono rilevabili anche per più di un anno nella metà dei pazienti. D’altra parte, i livelli di anticorpi contro altre infezioni sono rimasti stabili nel “Paziente Tedesco” per più di 9 mesi dopo il trapianto.
Sulla base di tutte queste considerazioni, Yukl, Deeks e colleghi ritengono che LA MISURA DELLE RISPOSTE IMMUNI HIV-SPECIFICHE POSSA COSTITUIRE UNO STRUMENTO SENSIBILE E ACCURATO PER DIAGNOSTICARE L’AVVENUTA CURA.
Nonostante la possibilità di trovare dei livelli bassissimi e intermittenti di HIV, il “Paziente Tedesco” vive senza ART da più di 5 anni, non ha una viremia rilevabile mediante i test standard, sta perdendo gli anticorpi anti-HIV e non dà prove di una progressione immunologica HIV-correlata. Soddisfa pertanto qualsiasi definizione clinica di remissione a lungo termine e forse si può anche pensare che il virus sia stato eradicato [NdD: è la prima volta che qualcuno dei suoi medici osa parlare di eradicazione per Timothy!

Concludono Yukl e Deeks:
- Dal momento che tutti i test possono dare dei risultati falso-positivi e che noi non siamo riusciti a dare una conferma della sequenza, noi non possiamo documentare in modo inconfutabile la persistenza dell’HIV e quindi ne concludiamo che la cura sia stata raggiunta. L’incapacità di dimostrare un negativo non è inattesa e probabilmente si dimostrerà un problema negli studi e negli interventi di cura futuri. Problemi simili stanno emergendo nel rilevare la persistenza in altri settori, compresi i trapianti di staminali post-allogenici e i bambini potenzialmente curati.
Una priorità fondamentale è lo sviluppo di solidi test, ben validati, capaci di rilevare facilmente livelli bassissimi di virus.
Gli studi futuri sull’eradicazione richiederanno, in definitiva, un’interruzione della terapia e un lungo periodo di osservazione come gold standard per definire il risultato un successo.