Parlare di questo lavoro mi interessa anche perché permette di affrontare, insieme all’infiammazione e all’immunoattivazione, anche la questione dei test per misurare il reservoir di HIV latente, di cui abbiamo discusso la settimana scorsa.
Questo per inquadrare l’argomento:
Lo studio di cui parlo qui nasce dall’esigenza – per meglio comprendere come curare l’infezione da HIV – di identificare correttamente come l’ambiente immune dell’ospite possa influire sulle dimensioni del reservoir di HIV latente e sulla distribuzione delle popolazioni di cellule infette quando la ART riduce la replicazione del virus al di sotto della soglia di rilevabilità dei test.Dora ha scritto:L’idea da cui parte Deeks è che l’attivazione dei linfociti T e la proliferazione cellulare indotta da questa attivazione contribuiscano in vivo alla persistenza dell’HIV.
È vero, infatti, che si è trovata una associazione abbastanza debole fra persistenza dell’HIV associato a cellule e attivazione dei linfociti T nel sangue.
Ma è anche vero che un'analisi comparativa di differenti tipi di misurazione dei reservoir virali ha mostrato come la frequenza di cellule memoria quiescenti che contengono DNA virale sia fortemente correlata con la frequenza dei CD4 attivati. E l’associazione fra questi fattori è particolarmente stretta nella mucosa intestinale.
Inoltre, l’RNA (ma non il DNA) virale associato alle cellule è più basso nelle persone che sono eterozigoti CCR5Δ32 e si correla con la frequenza di cellule che esprimono il recettore CCR5.
Abbiamo poi che la frequenza di proliferazione delle cellule, così come l’espressione di alcune importanti proteine infiammatorie (PD-1, LAG-3, TIGIT), che aumenta quando aumenta la proliferazione/attivazione delle cellule, predicono le dimensioni del reservoir di DNA virale integrato.
Deeks mostra dunque come esista una implicazione reciproca fra la persistenza e la replicazione dell’HIV e l’attivazione e l’infiammazione dei linfociti T.
I meccanismi causali dell’associazione fra persistenza dell’HIV e attivazione/proliferazione immunitaria sono complessi, probabilmente multi-direzionali e possono essere diversi in gruppi di pazienti differenti (definiti in base ad età, genere e risposta immunologica).
In questo schema si vede chiaramente come un problema causi e implichi l’altro:
La questione diventa dunque questa: L’INIBIZIONE DELLA ATTIVAZIONE E/O DELLA PROLIFERAZIONE DEI LINFOCITI T PUÒ CONTRIBUIRE A DISTRUGGERE IL RESERVOIR?
Nelle persone con HIV non in terapia si rileva una forte associazione fra i marker di attivazione e disfunzionalità dei linfociti T (CD38, HLA-DR, CCR5 e PD-1) e i livelli di HIV RNA nel sangue. È chiaro, dunque, che la replicazione del virus contribuisce a queste anomalie immunologiche. Ma vale anche il contrario: che molte di queste anomalie immunologiche contribuiscano ad aumentare i tassi di replicazione dell’HIV, poiché i CD4 attivati sono l’obiettivo preferito del virus.
In assenza di terapia, si è visto che quando i linfociti T hanno alti tassi di proliferazione ed esprimono alti livelli di PD-1 si hanno anche più alti livelli di replicazione dell’HIV.
Invece, l’associazione fra attivazione/disfunzione immunitaria e livelli totali di HIV in persone in terapia soppressiva è molto meno chiara: in certi studi si sono rilevate associazioni positive fra livelli di proliferazione/attivazione dei linfociti T e livelli di DNA o RNA virale nelle cellule, in altri studi queste associazioni non si sono viste.
Uno dei problemi che hanno finora reso così difficile valutare le relazioni fra lo stato immunitario dell’ospite e la dimensione e distribuzione dei reservoir di cellule infette durante la ART è la mancanza di un test validato e accettato da tutti per misurare i livelli di HIV quando la terapia funziona. Sappiamo, infatti, che il quantitative viral outgrowth assay (Q-VOA), che dovrebbe essere il gold-standard, tende a sottostimare le dimensioni del reservoir, mentre i vari tipi di PCR, che non sono capaci di distinguere fra virus capaci di replicazione e virus difettivi, tendono a sovrastimare l’estensione del reservoir.
Il lavoro fatto da Deeks e colleghi è consistito dunque nella ricerca di quali marker di immunoattivazione più strettamente si correlino con i livelli di HIV in una coorte di 30 persone con viremia soppressa dalla ART (HIV RNA nel plasma < 40 copie/mL da più di 3 anni), con più di 350 CD4 da un periodo superiore ai 6 mesi, e che avevano iniziato la terapia o durante la fase precoce dell’infezione (10) , o durante la fase cronica (20).
Per far questo sono stati usati diversi test, che come abbiamo visto hanno caratteristiche e limitazioni diverse:

L’obiettivo primario dello studio era riuscire a DETERMINARE SE LA FREQUENZA DI CELLULE ATTIVATE SIA IN CORRELAZIONE CON I LIVELLI DI HIV. E quello che Deeks e colleghi hanno trovato è che
- [divbox]C’È UNA FORTE ASSOCIAZIONE FRA LA FREQUENZA DEI CD4 E DEI CD8 CHE ESPRIMONO L’HLA-DR E LA FREQUENZA DEI CD4 QUIESCENTI CHE CONTENGONO DNA VIRALE (misurato mediante ddPCR – droplet digital PCR).[/divbox]
Questa relazione fra le dimensioni del reservoir latente e l’espressione dell’HLA-DR è presente sia nelle persone entrate precocemente in terapia, sia in quelle che hanno iniziato la ART quando già erano in fase cronica e potrebbe indicare che i CD4 che esprimono l’HLA-DR costituiscono il reservoir di elezione dell’HIV. Si tratterebbe di cellule che proliferano per via omeostatica, un meccanismo di proliferazione che si è dimostrato essere coinvolto in modo cruciale nella persistenza dell’HIV durante la ART.
La principale limitazione di uno studio trasversale come questo è l’impossibilità di stabilire una direzione causale. Deeks e colleghi ritengono che la proliferazione/attivazione dei linfociti T possa aver contribuito alla maggior frequenza di cellule infette. Ma non si può escludere che più virus causino più attivazione e/o proliferazione.
C’è da aggiungere che anche un virus difettoso, incapace di replicarsi, può comunque produrre delle proteine che causano attivazione immunitaria.
Serviranno dunque degli studi interventistici per capire la direzione causale di queste associazioni.
Dal momento poi che non c’è un test accettato da tutti per misurare la quantità totale di HIV capace di replicazione, non è chiaro quale sia il modo migliore per misurare queste associazioni ospite/virus.
In ogni caso, anche se con il loro studio non è stato possibile stabilire la direzione dei nessi causali, Deeks e colleghi ritengono di avere fornito delle prove dell’associazione fra marker di attivazione/proliferazione dei linfociti T e persistenza dell’HIV. Partendo da qui sarà possibile definire meglio il significato biologico dei diversi marker che si usano nella ricerca su HIV, soprattutto quando si sperimentano strategie di riattivazione della trascrizione del virus latente, poiché Siliciano ha dimostrato che, se non si riescono a distruggere le cellule infette riattivate, oltre a non eradicare un bel nulla, c’è il rischio di un aumento delle dimensioni del reservoir.