Quest’anno siamo alle scimmie. Manca solo di fare ancora il grande passo sugli esseri umani e forse gli anticorpi monoclonali ampiamente neutralizzanti potranno rientrare di diritto in una strategia complessa di cura, forse anche di eradicazione.
In un articolo su Science Now che il 24 ottobre dello scorso anno commentava la pubblicazione su Nature di un lavoro di Michel Nussenzweig, immunologo alla Rockefeller University di New York, Jon Cohen esordiva dicendo:
- Combattere l’HIV con gli anticorpi è come combattere l’incendio di un bosco con tubi per irrigare un giardino. Gli anticorpi possono rallentare il virus, ma questo fa continuamente copie di sé stesso, costruendo delle versioni mutanti che sfuggono a questa fondamentale risposta immunitaria.
E continuava spiegando che “gli anticorpi più potenti contro l’HIV sono stati isolati da persone non in terapia che NON erano riuscite a controllare la loro infezione per molti anni. Questi cosiddetti anticorpi ampiamente neutralizzanti (bNAbs) fanno poco nell’aiutare le persone che li producono, ma il fatto che esistano indica che le mutazioni hanno creato delle popolazioni virali sempre più diversificate, che a loro volta hanno spinto il sistema immunitario a sviluppare una risposta che è più potente e lavora contro un maggior numero di varianti”.
Quando Nussenzweig ha testato separatamente diversi bNAbs, isolati da esseri umani e poi prodotti artificialmente come anticorpi monoclonali in colture di laboratorio, in un modello di topo “umanizzato”, “i livelli di HIV – come ci si aspettava – sono scesi, ma poi sono risaliti nel giro di 2 settimane, perché il virus era mutato per sfuggire agli anticorpi che erano stati somministrati. Un cocktail di 3 bNAbs che penetrano attraverso le proteine di superficie dell’HIV in tre diversi punti è andato solo un po’ meglio. Ma, quando i ricercatori hanno combinato 5 diversi bNAbs, il virus è rimasto soppresso in 7 topi su 8 per 60 giorni”.
Allora Nussenzweig dichiarò che, essendo questi anticorpi prodotti naturalmente dagli esseri umani, non dovrebbero avere molti effetti collaterali e potrebbero prolungare la loro azione per molto tempo. Potenzialmente potrebbero essere usati due o tre volte l’anno.
Questo accadeva un anno fa.
Ora escono in contemporanea su Nature due articoli di due gruppi di ricerca diversi, ma in entrambi i quali ritroviamo il nome di Michel Nussenzweig a fare da trait d’union (e da ispiratore delle ricerche). Parlerò soprattutto del primo - quello di Barouch, Barton e collaboratori (Harvard)- e al secondo – quello di Martin, Shingai et al. (NIH) – dedicherò solo poche parole, perché mi pare in sostanza una conferma della validità della prima ricerca. E la prospettiva da cui mi interessa guardare a questi lavori non è tanto quella di un possibile vaccino preventivo, né quella di una sostituzione degli antiretrovirali con gli anticorpi monoclonali per mantenere un controllo sulla replicazione virale (che ha pure un suo senso), quanto quella di un eventuale utilizzo dei bNAbs all’interno di una strategia di cura non ingenua.
Molto in breve, i risultati:
- • In entrambe le ricerche, si è visto che l’infusione o di un singolo bNAb o di una combinazione è stata in grado di sopprimere la replicazione virale nei macachi.
• Borouch ha testato un cocktail di tre anticorpi in 4 macachi rhesus che erano stati infettati con un virus chimera SHIV altamente patogenico, che usa la envelope dell’HIV per penetrare nella cellula. In una settimana il virus era divenuto irrilevabile in tutte e 4 le scimmie ed è rimasto tale per 84 giorni, anche quando i titoli degli anticorpi erano declinati quasi al punto di svanire.
• Quando poi è stato utilizzato uno solo dei componenti del cocktail, un anticorpo particolarmente potente chiamato PGT121, si sono ottenuti risultati simili. Nel complesso, degli effetti terapeutici sono stati riscontrati in 18 scimmie, ma la diminuzione più consistente delle viremie si è osservata nei tre macachi che avevano i livelli di partenza di SHIV RNA più bassi.
• Un aspetto interessante è che i set point virali dopo la sospensione della terapia – cioè i livelli stabili di viremia raggiunti quando si è ristabilito un equilibrio fra replicazione virale e sistema immunitario – erano notevolmente più bassi rispetto ai set point raggiunti prima del trattamento. Questo suggerisce che gli anticorpi monoclonali abbiano migliorato la risposta immune antivirale .
• A questo controllo delle viremie si sono poi aggiunti un miglioramento della funzionalità dei CD8 SHIV-specifici e un aumento in tutti gli animali dei livelli di anticorpi neutralizzanti naturali.
• Alle infusioni di anticorpi si sono associate anche diminuzioni significative dei livelli di SHIV DNA nel sangue e nei tessuti (una misura del numero delle cellule infette), a indicare una riduzione del reservoir virale.
• Il crollo delle viremie è stato più rapido di quanto si vede normalmente con gli antiretrovirali e questo fa ipotizzare che i bNAbs abbiano accelerato la distruzione delle cellule infette mediante dei meccanismi anticorpo-mediati: gli anticorpi si legano alle proteine virali sulle cellule infette rendendole così visibili al sistema immunitario, che interviene a distruggerle.
• Nello studio di Martin e degli NIH, invece, è stata somministrata una combinazione di altri due anticorpi a dei macachi che erano in una fase meno avanzata dell’infezione e si è visto che i livelli di SHIV sono crollati sotto la soglia di rilevabilità in una decina di giorni, mentre nei macachi che erano in una fase più avanzata gli effetti sono stati meno spettacolari.
• In entrambe le ricerche, il virus ha comunque avuto un rebound quando gli anticorpi sono svaniti e non è stato possibile sperimentare gli effetti a lungo termine della terapia, perché si temeva che si finisse con l’innescare una risposta immune contro gli anticorpi umani. Quindi non è chiaro per quanto tempo questo tipo di risposte possano essere mantenute.
In un post nel blog che tiene per TAG, ieri Richard Jefferys ha elencato una serie di caveat di cui sarà bene che Barouch e colleghi tengano conto prima di passare – come è nei piani – in fase clinica.
- 1. La seconda ricerca, quella degli NIH, ha coinvolto delle scimmie che erano in una fase più avanzata dell’infezione, già sintomatica, e la resistenza ai bNAbs è parsa in quel caso svilupparsi con maggiore facilità (anche se ci sono stati comunque dei benefici in termini sia di riduzione delle viremie, sia di aumento dei CD4).
2. Nello studio di Barouch si è visto che i bNAbs non riuscivano a sopprimere completamente la viremia in due macachi che l’avevano particolarmente alta.
3. Non è chiaro se ci saranno differenze fra HIV e SHIV nella capacità di sviluppare resistenza ai bNAbs.
4. Le persone con infezione da HIV cronica possono ospitare molte quasispecie diverse e quindi avere fin dall’inizio qualche resistenza agli anticorpi monoclonali. In effetti, nei trial clinici che si sono tentati in passato le resistenze si sono sviluppate in fretta, ma si utilizzavano anticorpi di prima generazione, molto meno potenti di quelli che abbiamo adesso.
Detto tutto questo, e tenendo conto che la ART funziona bene nel colpire fasi diverse del ciclo di replicazione dell’HIV e per di più è somministrata per via orale, mentre i bNAbs devono essere iniettati, perché immaginare di usare gli anticorpi monoclonali all’interno di una strategia di cura?
Come ci spiegano Louis Picker e Steven Deeks in un commento scritto per Nature ai due articoli di cui stiamo parlando, perché da questi due lavori si vede chiaramente che i bNAbs seguono un meccanismo di soppressione virale diverso rispetto agli antiretrovirali: gli ARV impediscono al virus di diffondersi da una cellula infetta alle cellule circostanti, ma non uccidono direttamente le cellule infette, né impediscono alle cellule di produrre nuovi virioni.
In assenza di diffusione del virus, la produzione di HIV diminuisce perché le cellule infette muoiono o a causa del virus, o a causa di qualche reazione immuno-mediata, o di morte “naturale” (apoptosi). Il problema, come ben sappiamo, è che alcune cellule infette persistono e vanno avanti indefinitamente a produrre virus, causando quei rebound virali che si osservano quando la ART viene interrotta e contribuendo al permanere di uno stato di infiammazione e di disfunzione immunitaria nelle persone in terapia.
Ecco allora che gli anticorpi monoclonali, grazie al fatto che si attaccano alla envelope dell’HIV neutralizzandola e segnalando al sistema immunitario che lì c’è una cellula da distruggere, possono aiutare a spazzar via le cellule infette in cui l’HIV viene riattivato dalla latenza e che Siliciano ci ha insegnato che – a differenza di quel che si pensava – non muoiono né per gli effetti citotossici del virus, né per le reazioni citolitiche di CD8, che il virus ha reso troppo deboli.
La combinazione di una ART standard con una terapia a base di anticorpi monoclonali neutralizzanti potrebbe dunque
- • ridurre la replicazione virale in modo più efficace rispetto alla sola ART,
• mediare la distruzione delle cellule che producono virus dopo che l’infezione latente è stata riattivata,
• diminuire l’attivazione immunitaria generalizzata e
• rendere più efficace un vaccino terapeutico indirizzato a migliorare la distruzione delle cellule latentemente infette mediante l’azione dei CD8.
Secondo dichiarazioni rilasciate sia da Barouch, sia da Martin, l'obiettivo è di passare al più presto a una sperimentazione clinica.
Da parte sua, Richard Jefferys ci ricorda che un anticorpo ampiamente neutralizzante già arrivato in fase clinica c'è: si tratta di uno studio di sicurezza e tollerabilità, randomizzato e in aperto sul VRC 01, per il quale si stanno arruolando fra i 15 e i 25 volontari (cfr. ClinicalTrials.gov: VRC 601: A Phase I, Open-Label, Dose-Escalation Study of the Safety and Pharmacokinetics of a Human Monoclonal Antibody, VRC HIVMAB060-00-AB (VRC01), With Broad HIV-1 Neutralizing Activity, Administered Intravenously or Subcutaneously to HIV-Infected..).

FONTI:
- - D.Barouch, D.Burton et al., Therapeutic efficacy of potent neutralizing HIV-1-specific monoclonal antibodies in SHIV-infected rhesus monkeys
- M.Shingai, M.Martin et al., Antibody-mediated immunotherapy of macaques chronically infected with SHIV suppresses viraemia
- L.Picker, S.Deeks, Antibodies advance the search for a cure
- R.Jefferys, Cure Research Watch: Exploring the Therapeutic Potential of Neutralizing Antibodies
- J.Cohen, Reassessing Antibodies as Treatment for HIV Infection
- H.Ledford, Supercharged antibodies fight HIV-related virus in monkeys