SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla cura

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Datex
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla

Messaggio da Datex » giovedì 26 febbraio 2015, 0:17

Dora ha scritto:
Datex ha scritto:a meno che non mi sia sfuggito qualcosa ma non mi sembra che siliciano abbia mai detto che la strategia non funziona. dice solamente che allo stato attuale non riusciamo a misurare in modo accurato il reservoir e stabilire se effettivamente diminuisce o meno con gli interventi provati. aggiunge inoltre che serve un attivazione mirata delle cellule killer affinchè possano distruggere efficacemente il virus latente.
infatti il punto 3 dice: le cellule che contengono provirus difettivi possano essere distrutte dai linfociti citotossici attivati, tuttavia la frazione di questi provirus difettivi è troppo piccola per causare diminuzioni del livello del DNA virale che siano misurabili con i test che abbiamo a disposizione.

mi sembra inoltre di aver capito che hanno fatto questi esperimenti in vitro e non in vivo. per cui non credo si tratti di risultati definitivi.
Lo shock and kill iniziale, che prevedeva che bastasse forzare la trascrizione del virus latente perché le cellule infette morissero, è stato confutato in vitro tre anni fa. E tutti i trial clinici fatti in questi anni confermano che le cose nella realtà sono molto più complesse di quanto la teoria prevedesse. Prima che una versione più avanzata ed estremamente più sofisticata arrivi in fase clinica, credo che dovranno passare diversi anni.
si questo lo so. ma sono 2 cose diverse. è stato dimostrato che l'attivazione da sola non serve e che le cellule killer vanno stimolate affinchè riescano ad eliminare il reservoir. questa ultima fase è attualmente in studio. siliciano ha dimostrato in vitro che probabilmente sia i virus difettosi, sia i virus attivi e funzionanti vengono attivati ma che nel suo caso la risposta immunitaria non ha dato effetti misurabili sul dna virale. mi pare quindi un pò prematuro sostenere che l'approccio non funziona e siliciano da quello che leggo nella presentazione non lo dice affatto.



Dora
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla

Messaggio da Dora » giovedì 26 febbraio 2015, 0:43

Datex ha scritto:
Dora ha scritto:
Datex ha scritto:a meno che non mi sia sfuggito qualcosa ma non mi sembra che siliciano abbia mai detto che la strategia non funziona. dice solamente che allo stato attuale non riusciamo a misurare in modo accurato il reservoir e stabilire se effettivamente diminuisce o meno con gli interventi provati. aggiunge inoltre che serve un attivazione mirata delle cellule killer affinchè possano distruggere efficacemente il virus latente.
infatti il punto 3 dice: le cellule che contengono provirus difettivi possano essere distrutte dai linfociti citotossici attivati, tuttavia la frazione di questi provirus difettivi è troppo piccola per causare diminuzioni del livello del DNA virale che siano misurabili con i test che abbiamo a disposizione.

mi sembra inoltre di aver capito che hanno fatto questi esperimenti in vitro e non in vivo. per cui non credo si tratti di risultati definitivi.
Lo shock and kill iniziale, che prevedeva che bastasse forzare la trascrizione del virus latente perché le cellule infette morissero, è stato confutato in vitro tre anni fa. E tutti i trial clinici fatti in questi anni confermano che le cose nella realtà sono molto più complesse di quanto la teoria prevedesse. Prima che una versione più avanzata ed estremamente più sofisticata arrivi in fase clinica, credo che dovranno passare diversi anni.
si questo lo so. ma sono 2 cose diverse. è stato dimostrato che l'attivazione da sola non serve e che le cellule killer vanno stimolate affinchè riescano ad eliminare il reservoir. questa ultima fase è attualmente in studio. siliciano ha dimostrato in vitro che probabilmente sia i virus difettosi, sia i virus attivi e funzionanti vengono attivati ma che nel suo caso la risposta immunitaria non ha dato effetti misurabili sul dna virale. mi pare quindi un pò prematuro sostenere che l'approccio non funziona e siliciano da quello che leggo nella presentazione non lo dice affatto.
Ma io non ho affatto sostenuto che la versione 2.0 non funziona. Ho detto, invece, che non lo so - e che non lo sanno neppure persone ben più qualificate di me, perché è in una fase ancora troppo immatura.
Lo shock and kill prima versione è stato confutato non solo perché si è visto che, se anche si riattiva la trascrizione del virus, le cellule infette non muoiono e quindi serve uno stimolo che spinga i CTL a distruggerle. Tutti i trial sugli HDACi hanno anche dimostrato che la trascrizione del virus che si è riusciti a ottenere - minima con il vorinostat, un po' di più con panobinostat e romidepsina - non ha neppure scalfito il reservoir. Niente. È rimasto uguale. Quindi non basta forzare un po' la trascrizione - serve una riattivazione molto più massiccia perché si riesca a vedere una diminuzione del reservoir.
Per adesso, sostanze in grado di ottenerla senza fare contemporaneamente fuori una persona mi pare non ce ne siano.
Non credo sia un caso che - a parte tutti i gruppi che stanno studiando un vaccino terapeutico e si sono messi a sgomitare per saltare sul carro - da ormai almeno un paio d'anni tutti i lavori sull'eradicazione si concludano con l'ipotesi che sarà necessario unire le forze di diverse sostanze antilatenza e probabilmente ci vorranno più cicli di riattivazione (la stocasticità del processo è una cosa che potrebbe far fallire il tentativo in qualsiasi momento).
Insomma, il problema non è tanto (o solo) quello di stimolare il sistema immunitario a fare meglio il suo lavoro, ma è anche quello di riuscire davvero a svuotare il reservoir.
Capire come farlo prenderà tempo.



alfaa
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla

Messaggio da alfaa » giovedì 26 febbraio 2015, 1:58

Dora volevo chiederti una cosa, le sostanze anti latenza sono essenziali per ogni tipo di strategia di cura? Perche noto che la ricerca sulla cura è molto varia, ci sono anche tante cose " futuristiche" che devono ancora andare in fase clinica( basta guardare la prima pagina d questa sezione) ma mi chiedevo se fossero inutili qualora non si riesca a trovare una valida sistanza antilatenza o se la sostanza antilatenza riguardasse la strategia shock and kill



Dora
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla

Messaggio da Dora » giovedì 26 febbraio 2015, 7:32

alfaa ha scritto:Dora volevo chiederti una cosa, le sostanze anti latenza sono essenziali per ogni tipo di strategia di cura? [...] mi chiedevo se fossero inutili qualora non si riesca a trovare una valida sistanza antilatenza o se la sostanza antilatenza riguardasse la strategia shock and kill
Le sostanze antilatenza sono il cuore dello shock and kill e rientrano anche in possibili strategie di cura alternative allo shock and kill. Pensa, ad esempio, all'idea di Mark Wainberg di indurre grazie al dolutegravir il virus a sviluppare mutazioni che lo rendano sempre meno capace di replicarsi: anche qui un po' di shock che stimoli lo svuotamento del reservoir potrebbe essere molto utile.
Ma esistono altre idee su come arrivare a una cura, che delle sostanze antilatenza fanno a meno - vedi le varie terapie geniche, che resettano completamente o in parte il sistema immunitario.
Ed esistono anche ipotesi che prevedono, invece di svegliare il virus latente nei reservoir, di addormentarlo. Se si riesce, per sempre. L'ultima volta che ne abbiamo parlato è stato nel thread sui JAK inibitori, descrivendo l'idea di Raymond Schinazi di impedire al virus di riattivarsi quando è in latenza, rendendolo così simile alle decine di virus soppressi che ospitiamo nei nostri corpi, che possono riattivarsi solo quando il nostro sistema immunitario è seriamente compromesso.



alfaa
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla

Messaggio da alfaa » venerdì 27 febbraio 2015, 0:54

ok menomale. Perchè le sostanze antilatenza stanno andando non benissimo purtroppo da quanto ho capito e se fossero state centrali per ogni tipo di strategia di cura sarebbe stato deleterio



Dora
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla

Messaggio da Dora » mercoledì 1 aprile 2015, 10:19

L'IPOTESI DI UNA cALT (Terapia Anti-Latenza combinata) PRENDE SEMPRE PIÙ FORMA.

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Riprendo un post del 24 marzo dell'anno scorso per riannodare il filo di un fronte delle ricerche di Siliciano che in questi giorni vede la pubblicazione di una nuova appassionantissima puntata: si tratta del tentativo di dar conto di quello sfasamento osservato fra l’effetto delle sostanze anti-latenza nei modelli cellulari in vitro e nei CD4 quiescenti prelevati ex vivo a persone con HIV in terapia soppressiva e la conseguente ipotesi che questi farmaci possano funzionare meglio se usati in combinazione.
Le immagini e la bibliografia possono essere viste nel post originale, mentre un altro post sulla necessità di ripensare le strategie anti-latenza, scritto nel giugno scorso, segue subito sotto. Spero fra domani e dopo di riuscire a scrivere qualcosa sul nuovo lavoro.


Dora ha scritto:
  • Perché le sostanze anti-latenza hanno finora dato così cattiva prova di sé nelle sperimentazioni cliniche?
In questi anni abbiamo visto fallire tutti i trial clinici “proof of concept” fatti per sperimentare qualche farmaco anti-latenza: lasciando perdere il debolissimo acido valproico, hanno fatto o stanno facendo una brutta fine il disulfiram, il vorinostat e il panobinostat – uno apparentemente più potente dell’altro. E anche le prospettive della romidepsina non si può dire che siano rosee, mentre di briostatina e prostratina in fase clinica dubito che sentiremo parlare in tempi ragionevoli.

Da profana, mi sono chiesta: perché tutte queste sostanze, che in vitro sembrano funzionare bene o addirittura benissimo e delle quali si sono misurate le diverse capacità di riattivare il virus latente (senza al tempo stesso attivare in massa tutti i CD4) in modo così preciso da poterle mettere in scala di potenza, quando finalmente vengono sperimentate in vivo, sembra che al virus che dorme non riescano a fare neppure il solletico?
Che cosa non funziona nei diversi modelli cellulari perché si rivelino così poco affidabili nel predire che cosa accadrà davvero nel corpo dei pazienti?
E in particolare: perché nei modelli riesci a stabilire che una sostanza è più potente di un’altra nel forzare la trascrizione del virus, e anche di quanto è più potente, e invece i risultati delle sperimentazioni cliniche sono molto simili (e vicini allo zero) per le diverse sostanze?
In questi anni, mi è capitato di leggere decine di lavori in cui si lamentava il fatto che nessun modello cellulare della latenza riesce da solo a catturare l’estrema complessità della realtà. Parallelamente, in ogni articolo, in ogni presentazione a un congresso, c’è sempre qualche ricercatore che sottolinea quanto sia difficile misurare correttamente il reservoir - una valutazione da cui non si può prescindere se si vuole capire se i farmaci antilatenza stanno avendo qualche effetto oppure no.
E già l’anno scorso, nell’ultima ricerca di cui abbiamo parlato in questo thread, dal laboratorio di Siliciano era venuta la dimostrazione che quello che è considerato il gold standard per misurare le dimensioni del reservoir latente – il Quantitative Viral Outgrowth Assay (QVOA) – non riesce a individuare la presenza di genomi provirali dopo che questi sono stati riattivati in vitro, mentre la PCR riesce ad amplificare un certo numero di “provirus non indotti” - tanto che Margolis - non ricordo più in quale occasione recente - ammise che, finché non si trova un modo per valutare davvero le dimensioni del reservoir, ogni trial clinico rischia di essere una semplice presa in giro.

Prima di arrivare alla sperimentazione in vivo, mancava inoltre un approfondito passaggio dai modelli in vitro alle cellule prelevate ex vivo da pazienti con viremia soppressa dalla terapia.
Questo passaggio l’ha fatto adesso Siliciano e qualche risposta comincia ad arrivare.
La ricerca è stata presentata al CROI tre settimane fa, ma ieri è uscito il relativo articolo su Nature Medicine, quindi metterò insieme qualche diapositiva della presentazione di Gregory Laird con quel che io ho recepito dell’articolo molto tecnico di Siliciano.

Detto molto brutalmente: nessuno dei farmaci antilatenza (latency-reversing agents – LRAs) sperimentati finora ha dimostrato di saper ridurre le dimensioni del reservoir latente in persone con HIV.
Il trattamento ex vivo con vorinostat di cellule di persone infette ha indotto, in certi studi, uno certo riattivarsi del virus, mentre in altri studi non si è visto neppure quello. Ma in vivo di produzione virale non se ne è vista.
Mancava finora una strategia validata ex vivo di confronto fra le diverse sostanze antilatenza, ed è quello che ha fatto Siliciano in questa ricerca, cercando di indurre la trascrizione virale in circa 5 milioni di CD4 quiescenti con vari LRAs e utilizzando tre test differenti per misurarne gli effetti. I test sono stati:
  • 1. l’induzione di produzione virale – a indicazione di un’avvenuta inversione della latenza (Viral Outgrowth Assay – un tipo di test creato e ora modificato nel laboratorio di Siliciano);
    2. il rilascio di virus libero fuori dalle cellule;
    3. la produzione di HIV-1 mRNA intracellulare. È il metodo più comune per misurare mediante PCR l’induzione della trascrizione dell’HIV e consiste nella misura degli RNA che contengono sequenze della proteina Gag dell’HIV. Il problema - come viene dimostrato nell'articolo - è che anche se sono stati documentati aumenti di HIV-1 mRNA nei trial sul vorinostat di Margolis e di Lewin, questo metodo di misurazione non è del tutto affidabile, perché l'HIV mRNA può essere generato come risultato della trascrizione di geni umani entro i quali il virus si è integrato. Ma questo fenomeno non è la stessa cosa dell'attivazione del virus e non porta alla replicazione dell'HIV e alla produzione di virioni, che è la ragione per cui si usano i farmaci antilatenza.


Nei modelli cellulari, vorinostat, romidepsina, panobinostat, disulfiram e briostatina-1, dati in concentrazioni clinicamente accettabili, avevano dimostrato di poter invertire efficacemente la latenza senza avere effetti tossici sui CD4 quiescenti.
Le slides seguenti mostrano invece come da tutti e tre i tipi di test si sia visto che le singole sostanze anti-latenza non hanno causato produzione di virus nelle cellule prelevate dai pazienti con viremia soppressa dalla ART. Invece, trattando le cellule in coltura con PMA (forbolo miristato acetato) + ionomicina, un mix che causa attivazione cellulare e non può dunque essere usato nella clinica, tutte le cellule di tutti di pazienti hanno prodotto virus, che è stato possibile quantificare con un Viral Outgrowth Assay standard.


Le conclusioni dell’articolo:
  • I nostri dati dimostrano che nessuno dei principali candidati testati, fra le sostanze che invertono la latenza senza riattivare i linfociti T, è riuscito a distruggere in modo significativo ex vivo il reservoir latente. Il contrasto fra gli effetti dei LRAs nei modelli di latenza dell’HIV-1 in vitro e i loro effetti ex vivo nei CD4 quiescenti di persone infette in ART indica che questi modelli non catturano completamente tutti i meccanismi che governano la latenza dell’HIV-1 in vivo. È improbabile che queste sostanze portino all’eliminazione del reservoir latente in vivo quando somministrate individualmente.
    L’unica sostanza efficace quando usata da sola è l’agonista della PKC [protein-chinasi C] briostatina-1, che probabilmente è troppo tossica per essere usata nella clinica.
    Rimane da capire se altri agonisti della PKC o altre sostanze che stimolano meccanismi associati all’attivazione dei linfociti T possano essere abbastanza sicuri da essere somministrati ai pazienti ed è possibile che ulteriori progressi dipendano dal trovare delle combinazioni di LRAs che siano sicure e attive.
Con questo l’articolo si chiude.
Invece, la lezione tenuta al CROI da Gregory Laird ci lascia con qualche speranza in più, perché ci mostra come alcune combinazioni di sostanze anti-latenza abbiano dimostrato di poter lavorare insieme, inducendo una maggior produzione di virus nelle cellule latentemente infette prelevate dai pazienti. Si è infatti osservato un potente ed efficace effetto sinergico quando sono stati uniti il panobinostat e soprattutto la romidepsina alla briostatina.

DdD: si sta preparando una terapia combinata anti-latenza, una specie di cALT?
Dora ha scritto:Quando lo scorso marzo dal Siliciano Lab è arrivata la conferma di quanto si era osservato durante i trial clinici, e cioè che c’era uno sfasamento nell’effetto che le sostanze anti-latenza hanno nei modelli cellulari in vitro e quello che hanno ex vivo nei CD4 quiescenti di persone infette in terapia soppressiva, una nuova speranza veniva parallelamente offerta dalla possibilità di un uso congiunto di farmaci anti-latenza diversi.
Fu facile, allora, prevedere che stesse prendendo forma il concetto di terapia combinata anti-latenza e immaginare che potesse nascere l’acronimo cALT = combined Anti-Latency Therapy/Treatment.

Su Nature Reviews - Drug Discovery, la giornalista scientifica Alla Katsnelson ha pubblicato pochi giorni fa un breve articolo – Setback prompts rethink of latency-reversing strategy to eliminate HIV infection - che fa il punto della situazione sulle sperimentazioni fatte finora sui farmaci anti-latenza. È un lavoro semplice e molto chiaro, che mi sembra valga la pena tradurre per avere una visione di sintesi su alcune delle ricerche che stiamo seguendo in questa sezione del forum – e anche perché conferma che l’idea della cALT sta davvero prendendo consistenza.



Una battuta d’arresto spinge a ripensare alla strategia di inversione della latenza per eliminare l’infezione da HIV

I risultati contrastanti della prima generazione di sostanze che colpiscono l’infezione latente da HIV portano gli esperti a considerare combinazioni terapeutiche e nuovi test

I farmaci antiretrovirali sono stati efficaci in modo spettacolare nel controllare l’HIV ostacolando la capacità del virus di infettare le cellule, ma non distruggono i reservoir di cellule latentemente infette, che rimangono il principale ostacolo alla cura.
Una soluzione attraente a questo problema è stata quella delle sostanze che invertono la latenza (Latency Reversing Agents – LRAs), capaci di riattivare il virus dormiente, stanandolo dal suo nascondiglio in modo che possa essere colpito e ucciso.

Tuttavia, la prima generazione di LRA è di recente incappata in qualche difficoltà.

Uno studio ha dimostrato che quattro delle sostanze considerate migliori, che avevano mostrato delle potenzialità nei modelli di colture cellulari e negli studi clinici preliminari, hanno efficacia minima sulle cellule prelevate dai pazienti (Nature Med. 20, 425–429; 2014). Una quinta sostanza, per quanto più potente, è probabilmente troppo tossica per poter essere utilizzata in clinica.

Per molti che lavorano in questo campo, questi e altri dati indicano la necessità di un approccio “shock and kill” combinato, così come dello sviluppo di farmaci migliori. Ma i dati clinici potrebbero ancora salvare l’approccio con una singola sostanza. “Non sono del tutto convinto che questi test ex vivo colgano in pieno l’effetto dei farmaci in vivo” – dice Thomas Rasmussen, dell’università danese di Aarhus. “C’è un altro tipo di test che ci sta portando a una conclusione che non è necessariamente la medesima cui stanno arrivando altri laboratori”.

Il primo attacco in vivo all’approccio dei LRA venne una decina d’annoi fa, quando David Margolis, ora alla University of North Carolina, e colleghi trattarono quattro pazienti con acido valproico, un inibitore dell’iston-deacetilasi (Lancet 366, 549–555; 2005). Questi risultati – interessanti, ma preliminari – non furono confermati in sperimentazioni successive, ma diedero impulso a un impegno più ampio verso l’identificazione di nuovi LRA.
Per esempio, nel 2012 Margolis e colleghi pubblicarono uno studio molto stimolante, in cui si mostrava che il vorinostat, un altro inibitore dell’iston-deacetilasi, aumentava l’espressione dell’HIV RNA nei CD4 quiescenti in otto pazienti (Nature 487, 482–485; 2012).
Tuttavia, nonostante dati incoraggianti su diversi HDACi e altre piccole molecole nei modelli in vitro – compresa una positiva attività della romidepsina su cellule tratte da pazienti riferita lo scorso aprile (PLOS Pathog., 10 Apr 2014) – i dati clinici che ne sono seguiti sono stati contrastanti.

In una ricerca recente, Robert Siliciano e colleghi della Johns Hopkins University School of Medicine, Maryland, si erano prefissi di studiare gli effetti del disulfiram su 16 persone con HIV. il disulfiram, che è usato per trattare l’alcolismo, aveva mostrato una certa attività in un modello cellulare, ma non ha avuto alcuna efficacia nel trial clinico pilota (Clin. Infect. Dis. 58, 883–890; 2014). “Questo è proprio quello che ci ha spinto a dire ‘OK, dobbiamo tornare indietro e vedere se questi modelli ci dicono davvero quello che accade nelle cellule dei pazienti” – dice Siliciano.

Nei test basati su cellule tratte dai pazienti che hanno sviluppato, come riferito nel recente articolo su Nature Medicine, né i tre HDACi che hanno testato – vorinostat, panobinostat e romidepsina – né altre due sostanze – il disulfiram e la briostatina-1 – hanno indotto produzione virale, il gold-standard per misurare la riduzione della latenza.
Tutti, tranne la briostatina-1, hanno indotto solo un piccolo aumento dei livelli di HIV mRNA nelle cellule tratte da 13 persone con HIV. “Se l’attivazione dei linfociti T causa un aumento di 100 volte nell’HIV mRNA, queste sostanze possono causare un aumento di 2 volte” – dice Siliciano.
La briostatina-1 ha prodotto un aumento da 3 a 5 volte nei livelli di mRNA, ma ha anche causato una significativa tossicità alle cellule. “Non è chiaro se questo farmaco sarà mai abbastanza sicuro da usare in questo contesto” – nota Siliciano.
Jerome Zach, direttore del Center for AIDS Research della University of California, Los Angeles, sta invece sviluppando degli analoghi di sintesi della briostatina-1 – chiamati “briologhi” – con l’obiettivo di minimizzarne la tossicità.


Combinazione di LRAs

“È possibile che questi farmaci funzionino se usati in qualche combinazione” – dice Siliciano. “È solo che, fino ad ora, presi singolarmente non sono stati particolarmente efficaci”. E questo non dovrebbe sorprendere – aggiunge: la terapia combinata è stata storicamente la strada da percorrere con l’HIV. Il suo gruppo ha già iniziato a testare combinazioni di sostanze nei modelli costruiti con cellule prese dallo stesso paziente, anche se è un processo molto macchinoso – dice.
La Merck sta utilizzando screening detti “ad alto rendimento” per identificare combinazioni di LRA – dice Daria Hazuda, capo delle ricerche per le malattie infettive ai Laboratori di ricerca Merck. L’espressione del virus latente è modulata dalla cromatina, e ciò la rende suscettibile di essere colpita dagli HDACi, ma viene anche ristretta attraverso altri meccanismi al livello della trascrizione e forse anche della traduzione, quindi colpire una combinazione di meccanismi potrebbe produrre i risultati migliori. “Stiamo iniziando a raccogliere alcune idee interessanti su come ottimizzare delle combinazioni in modo più sistematico e razionale” – dice.
Anche una manciata di altre società, compresa Gilead Sciences, stanno lavorando in questo campo – aggiunge.

Studi su scimmie infettate dal virus dell’immunodeficienza scimmiesca (SIV) e su topi umanizzati saranno cruciali per capire come i LRA lavorino in vivo – dice Margolis. Ci sono in corso degli studi su una combinazione di vorinostat e prostratina, così come su altri HDAC, agonisti della protein-chinasi C (PKC), inibitori del bromodomain e altri composti come l’ingenol, testati da soli o in combinazione. “Degli studi di combinazione su esseri umani, a mio parere, non sono ancora sicuri” – aggiunge.

Invece, Rasmussen continua a sperare in sostanze singole. Al CROI lo scorso marzo ha riferito che il panobinostat – uno dei farmaci che hanno mostrato una attività minima nel recente studio di Siliciano – ha indotto un aumento nei livelli di HIV mRNA associati alle cellule e nel plasma in un trial su 15 pazienti (CROI Poster Abstract 438LB).
“Noi pensiamo che questo composto sia in grado di attivare la produzione di virus in misura tale che effettivamente si producano particelle virali, che vengano poi rilasciate nel flusso sanguigno” – sostiene Rasmussen.

Altri trial su singoli LRA sono ancora in atto. Ricercatori australiani hanno riferito al CROI nel 2013 che il vorinostat aveva stimolato i livelli di mRNA associato alle cellule in 18 pazienti su 20, e anche il team di Margolis sta conducendo dei trial di follow-up degli studi clinici sul vorinostat. All’inizio di quest’anno, poi, è partito un trial sulla romidepsina condotto dall’AIDS Clinical Trials Group.
Anche Rasmussen e colleghi hanno di recente iniziato un trial sulla romidepsina somministrata insieme a un vaccino terapeutico, con l’idea di stimolare le risposte dei CD8 contro il virus riattivato.


Servono più test

Le scoperte fatte ultimamente da Siliciano mettono in evidenza la necessità di modelli migliori, che facciano migliori predizioni rispetto ai modelli usati fino ad oggi – aggiunge Werner Greene, un ricercatore della University of California, San Francisco. “Quello di cui abbiamo bisogno è una popolazione di cellule tratte dai pazienti che siano molto più pure ed omogenee rispetto a quelle che possiamo avere in numero illimitato” – dice, osservando che lui stesso sta collaborando allo sviluppo di tali cellule, mediante l’utilizzo di una tecnologia che permette di indurre cellule staminali pluripotenti.
Hazuda concorda sul fatto che testare i farmaci su cellule tratte da pazienti è importante, ma invita alla cautela, poiché non è ancora sicuro che i test sulle cellule dei pazienti siano migliori di altri tipi di esperimenti. “Finché non otterremo davvero dati in vivo per costruire dei modelli standardizzati sarà difficile dire che un test è più utile o fa predizioni migliori di un altro” – dice.

Ci sono diverse altre questioni ancora da risolvere. Per esempio, non è chiaro quanto virus sia necessario riattivare. “La misurazione importante, probabilmente, è quanto antigene viene esposto dalla cellula infetta “ – dice Margolis. “cioè, la cellula può essere identificata e distrutta?” Anche questo rende difficile valutare funzionalmente le risposte ai LRA.

Un’altra questione, poi, è che sia i modelli in vitro, sia i test ex vivo derivati dai pazienti come quello di Siliciano, usano linfociti T quiescenti circolanti. Ma le cellule latenti si ritiene stiano prevalentemente nei tessuti, come l’intestino e il sistema nervoso centrale, ed è possibile che queste cellule rispondano ai farmaci in modo diverso.

Può anche essere difficile trovare un equilibrio fra la riattivazione del virus e l’attivazione dei linfociti T, che inverte la latenza, ma può scatenare una tempesta di citochine. “Questa biologia del virus è così inestricabilmente legata all’attivazione dei linfociti T, che rischia di essere difficile trovare sostanze che stimolino l’espressione del virus senza però attivare la cellula” – dice Greene.

Nonostante tutto questo, i ricercatori sono ottimisti sul fatto che l’approccio con i farmaci anti-latenza possa funzionare. “Dobbiamo essere realisti e guardare al progresso che abbiamo fatto con un investimento che – relativamente parlando – non è stato enorme” – dice Margolis. “Questo campo di ricerca sta solo iniziando a muoversi”.
Su questo filone delle ricerche di Siliciano è stato creato uno spin-off: il thread

Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?



Dora
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla cura

Messaggio da Dora » lunedì 11 febbraio 2019, 12:00

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UN METODO PER MISURARE IL RESERVOIR, UN METODO PER DISTINGUERE FRA I PROVIRUS DI HIV DIFETTIVI E QUELLI INTATTI

Avere un metodo per caratterizzare e distinguere i provirus di HIV integrati nel genoma dei CD4 quiescenti, e che sono alcuni brutti e cattivi, altri, la maggior parte, brutti ma sostanzialmente innocui, è stato uno dei principali obiettivi della ricerca di una cura in questi ultimi 6 anni. No method, no cure – o meglio, senza un metodo non riusciamo a capire esattamente che cosa stiamo facendo, dove stiamo andando, se i nostri tentativi hanno successo e fino a dove ce l’hanno.
Dobbiamo non soltanto essere in grado di individuare correttamente in quali cellule, e dove localizzate, si formi il reservoir, ma anche di quantificarlo il più esattamente possibile per valutare se un intervento terapeutico l'ha ridotto e quindi capire se una cura è stata ottenuta, oppure no. Finché non siamo capaci di far questo, dobbiamo continuare con le interruzioni della cART, con tutti i rischi clinici ed i conseguenti problemi etici che le sospensioni delle terapie si portano appresso. Inoltre, finché non sappiamo di quanto il nostro intervento terapeutico ha ridotto il reservoir latente, rischiamo di dare troppo, di quell'intervento, somministrando ai pazienti molto più farmaco di quanto serve e quindi causando tossicità che sarebbe bello evitare.

Non che non ci fosse niente, che i ricercatori stessero a contare palline su un pallottoliere con gli occhi bendati: siamo pieni di metodi di misurazione, ma i risultati che questi metodi ci davano erano troppo difformi fra metodo e metodo per poterci dare informazioni affidabili in clinica.

È così tanto spesso una questione di metodo, parliamo così tanto spesso della necessità e della difficoltà di saper distinguere – la scienza dalla pseudoscienza, il vero dal falso, il possibile dall’impossibile – che il lavoro di cui parliamo oggi ci riporta alle fondamenta filosofiche della ricerca di una cura.

Chi ha seguito negli anni questo thread sa che Siliciano ha sempre offerto spunti per parlare della filosofia che sta dentro questo tipo di ricerca scientifica, forse è il più filosofo fra gli scienziati di cui ci occupiamo qui nel forum, o lo scienziato dalla cui pratica scientifica è più facile veder emergere questioni filosofiche. Forse lo è malgré soi – non lo conosco personalmente e non sono in grado di dirlo.
Ma non divaghiamo e veniamo al punto.

È Siliciano che ha scoperto che esiste un reservoir di virus latente contro il quale la cART non può nulla ed è quindi dal suo lavoro (insieme a quello di tanti altri naturalmente – qui devo semplificare un po’) che abbiamo capito che per eradicare l’HIV dobbiamo andare oltre, molto oltre la cART.
Ed è Siliciano che ha inventato il VOA, quel viral outgrowth assay che ha costituito per anni una sorta di gold standard nei metodi di misurazione del reservoir.
Ed è sempre Siliciano ad avere scoperto che il VOA per misurare il reservoir non va granché bene.

Il VOA misura la frequenza di CD4 quiescenti che producono virus infettivo dopo un singolo ciclo di massima attivazione possibile in vitro.
È un metodo macchinoso e di lenta realizzazione, che richiede settimane: si prelevano i CD4 quiescenti di persone con HIV e in cART soppressiva, li si inondano di fitoemoagglutinina, che è una sostanza così potente da attivare uniformemente tutti i linfociti T (e quindi in vivo non la si può usare, perché è davvero troppo tossica). In questo modo, con le cellule che si attivano, si obbliga il virus a uscire dalla latenza e ad andare a infettare cellule di donatori sani messe a coltura insieme ai CD4 latentemente infetti così che lo si possa contare.
Si è visto così che i CD4 latentemente infetti sono poche unità su 1 milione di CD4 quiescenti.

Ma quello che Siliciano ha scoperto circa 6 anni fa è che la frequenza delle cellule latentemente infette calcolate mediante il VOA è di ben 300 volte più bassa rispetto alla frequenza di CD4 quiescenti contenenti del provirus, che può essere rilevato se si usa la PCR, la polymerase chain reaction.
Di metodi basati sulla PCR, tutti ben più rapidi e maneggevoli del VOA, se ne usano diversi; ma tutti vanno a cercare il DNA del virus per amplificarlo e così poterlo stimare.

La differenza fra i due metodi è che il VOA calcola soltanto i provirus riattivati dopo un ciclo di attivazione, invece la PCR calcola le copie totali di provirus presenti, che siano latenti o riattivati, cioè senza discriminare in base allo stato trascrizionale del virus.
Proprio per come è costruito, il VOA trascura i provirus “non indotti”, perché non erano mai stati caratterizzati con precisione, ma si riteneva che fossero difettivi e dunque incapaci di risvegliarsi e proliferare.
Ma quello che Siliciano ha scoperto è che quella grande quantità di provirus con genomi non indotti da un ciclo di attivazione dei CD4, che si pensavano non integri, difettivi, ipermutati dunque non pericolosi, in realtà contiene al suo interno una frazione di provirus che, se vengono sequenziati e messi a confronto con i provirus riattivati, mostrano dei genomi intatti.
Cioè abbiamo circa un 88% di provirus che hanno mutazioni o delezioni che li rendono difettivi e incapaci di riprodursi, ma abbiamo anche circa un 12% di provirus che, anche se non sono stati indotti a riprodursi dopo un primo ciclo di riattivazione massiccia delle cellule, hanno genomi intatti, che li rendono capaci di reinnescare cicli di infezione in qualsiasi momento.
Quella frazione di provirus con genomi intatti e che può essere indotta in vivo a replicarsi non viene vista dal VOA.

Quindi noi abbiamo da un lato un sistema - il VOA - che sottostima le dimensioni del reservoir; dall'altro un sistema - la PCR - che vede tutto, ma che non è capace di distinguere in quel tutto il virus pericoloso che dobbiamo eradicare da quello che possiamo lasciare lì a dormire in eterno.
Per i limiti del primo metodo, sottostimare la quantità di provirus intatti può comportare un rebound virale ritardato quando si pensava di aver ottenuto una cura. Per i limiti del secondo metodo, rilevare anche i provirus difettivi può causare un'esposizione eccessiva del paziente agli effetti tossici dei farmaci anti-latenza.

Ho fatto breve una storia assai lunga. Ma nel 2015 eravamo più o meno a questo punto.

In questi ultimi anni, però, Siliciano è andato avanti a lavorare e ora presenta - in una Letter a Nature - il frutto del suo lavoro: l'IPDA - l'Intact Proviral DNA Assay.
Molto terra-terra: l'IPDA è una PCR in grado di distinguere fra provirus difettivi e provirus intatti, utilizzando sonde fluorescenti in due colori diversi. Le sonde individuano le aree del DNA virale che sono soggette a mutazioni che possono causare difetti tali da rendere il provirus incapace di replicazione e sul display del test compare un colore che dice se il provirus è integro o difettivo.

Il test è stato messo alla prova e poi validato usando dei plasmidi di controllo che rappresentavano provirus portatori di differenti difetti e si è visto che la sua accuratezza nel discriminare fra provirus intatti e difettivi è altissima.
Ha permesso, fra le altre cose, anche di confermare che i provirus difettivi sono largamente dominanti nel reservoir.
E le misure fornite dall'IPDA sono strettamente correlate con le misure offerte dal qVOA (VOA quantitativo) sugli stessi campioni, perfino quando la frazione di provirus intatti indotti da un singolo ciclo di attivazione dei linfociti T nel qVOA è piccolo e le differenze fra un individuo e l'altro o nello stesso individuo in tempi differenti sono estremamente variabili.
Il reservoir latente misurato dal qVOA subisce un lento decadimento (la sua emivita è di 44 mesi). I provirus intatti misurati dall'IPDA hanno mostrato un decadimento sovrapponibile: nella maggior parte dei campioni prelevati ex vivo da persone con infezione ben controllata dalla cART, si è visto che t 1/2 ≃ 44 mesi; in alcuni pazienti si è misurato un decadimento anche più lento (t 1/2 = 100-300 mesi) e in 3 pazienti su 14 non si è visto nessun decadimento.
Ciò significa che i cambiamenti del reservoir misurati dall'IPDA sono coerenti con le dinamiche note del reservoir e che riescono perfino a definire delle sottopopolazioni del reservoir che hanno un decadimento più lento rispetto a quello stimato in media con altri test.
L'IPDA non può dimostrare la presenza di cloni espansi, che sappiamo essere una delle cause del permanere del reservoir in persone da tempo in terapia soppressiva. Può tuttavia intercettare degli aumenti nella frequenza delle cellule infette dovuta a espansione clonale.

In conclusione, la tecnica messa a punto da Siliciano offre il metodo che si è cercato per anni per dare una misura accurata del reservoir e permetterà di stabilire se un intervento terapeutico ha realmente inciso sulle dimensioni del reservoir, oppure no.



FONTI:

- l'articolo su Nature di Bruner et al: A quantitative approach for measuring the reservoir of latent HIV-1 proviruses



Gabriel81
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla cura

Messaggio da Gabriel81 » giovedì 14 febbraio 2019, 0:09

Mi sembra davvero una pietra miliare...ma teoricamente, se si volesse stabilire la quantità di reservoirs di un individuo per valutare una strategia di cura, bisognerebbe comunque prelevare campioni da tutti i “santuari” del virus tipo liquor, biopsie di linfonodi, etc. o risulterebbe attendibile la sola analisi sul plasma?


Una pianificazione attenta non sostituirà mai una bella botta di culo!

Dora
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla cura

Messaggio da Dora » giovedì 19 dicembre 2019, 9:07

Dora ha scritto:
lunedì 11 febbraio 2019, 12:00
In questi ultimi anni, però, Siliciano è andato avanti a lavorare e ora presenta - in una Letter a Nature - il frutto del suo lavoro: l'IPDA - l'Intact Proviral DNA Assay.
Molto terra-terra: l'IPDA è una PCR in grado di distinguere fra provirus difettivi e provirus intatti, utilizzando sonde fluorescenti in due colori diversi. Le sonde individuano le aree del DNA virale che sono soggette a mutazioni che possono causare difetti tali da rendere il provirus incapace di replicazione e sul display del test compare un colore che dice se il provirus è integro o difettivo.

Il test è stato messo alla prova e poi validato usando dei plasmidi di controllo che rappresentavano provirus portatori di differenti difetti e si è visto che la sua accuratezza nel discriminare fra provirus intatti e difettivi è altissima.
Ha permesso, fra le altre cose, anche di confermare che i provirus difettivi sono largamente dominanti nel reservoir.
E le misure fornite dall'IPDA sono strettamente correlate con le misure offerte dal qVOA (VOA quantitativo) sugli stessi campioni, perfino quando la frazione di provirus intatti indotti da un singolo ciclo di attivazione dei linfociti T nel qVOA è piccolo e le differenze fra un individuo e l'altro o nello stesso individuo in tempi differenti sono estremamente variabili.
Il reservoir latente misurato dal qVOA subisce un lento decadimento (la sua emivita è di 44 mesi). I provirus intatti misurati dall'IPDA hanno mostrato un decadimento sovrapponibile: nella maggior parte dei campioni prelevati ex vivo da persone con infezione ben controllata dalla cART, si è visto che t 1/2 ≃ 44 mesi; in alcuni pazienti si è misurato un decadimento anche più lento (t 1/2 = 100-300 mesi) e in 3 pazienti su 14 non si è visto nessun decadimento.
Ciò significa che i cambiamenti del reservoir misurati dall'IPDA sono coerenti con le dinamiche note del reservoir e che riescono perfino a definire delle sottopopolazioni del reservoir che hanno un decadimento più lento rispetto a quello stimato in media con altri test.
L'IPDA non può dimostrare la presenza di cloni espansi, che sappiamo essere una delle cause del permanere del reservoir in persone da tempo in terapia soppressiva. Può tuttavia intercettare degli aumenti nella frequenza delle cellule infette dovuta a espansione clonale.

In conclusione, la tecnica messa a punto da Siliciano offre il metodo che si è cercato per anni per dare una misura accurata del reservoir e permetterà di stabilire se un intervento terapeutico ha realmente inciso sulle dimensioni del reservoir, oppure no.
Un interessante utilizzo dell'IPDA (Intact Proviral DNA Assay) è stato presentato al 9th HIV Persistence di Miami la settimana scorsa:

OP 5.6 Intact proviral DNA levels decline in people with HIV on antiretroviral therapy

In breve, grazie al nuovo metodo di misurazione del reservoir inventato da Siliciano, è stato possibile confermare in un buon numero di persone (50, di cui il 26% donne) che la componente del reservoir latente composta di provirus intatti, cioè capaci di ricominciare a replicarsi, diminuisce durante gli anni in cui la cART sopprime efficacemente la viremia. In certi casi i livelli di DNA provirale diventano così bassi da non essere più misurabili.
La stima del declino dell'emivita del reservoir composto di provirus intatti è stata di 6,5 anni, mentre quella dell'emivita del reservoir complessivo, cioè composto di provirus difettivi, che preoccupano di meno perché possono influire sullo stato infiammatorio, ma non possono dar vita a nuovi cicli di replicazione una volta sospesa la cART, è stata di quasi 23 anni.

Perché questo è importante? Perché ci dice che, più tempo si passa in cART, più il reservoir si svuota di provirus "pericolosi" e più è composto di provirus difettivi. Non sappiamo ancora perché il comparto dei provirus intatti sia più dinamico di quello dei provirus difettivi, e naturalmente capirlo è il prossimo passo da fare. Ma intanto adesso abbiamo un metodo validato ed efficace per misurare gli effetti degli interventi di cura sulla parte del reservoir che preoccupa di più.

Un'altra prova del fatto che la biologia del reservoir intatto è diversa da quella del reservoir difettivo (sempre ottenuta grazie all'IPDA), nell'abstract OP 3.1 - Differential decay of intact and defective proviral DNA in HIV-1-infected individuals on suppressive antiretroviral therapy.

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Taurus
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Re: SILICIANO: caratterizzazione del reservoir, studi sulla cura

Messaggio da Taurus » giovedì 19 dicembre 2019, 19:43

Azzardo....questo studio potrebbe spiegare casi come quello del nostro "Vito83" (o qualcosa del genere...), che dai suoi aggiornamenti apprendiamo che dopo aver sospeso la CART sta continuando a tenere viremia irrilevabile e parametri generali da sieronegativo?



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